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Dimon (ceo di JP Morgan Chase): non ha senso far fallire gli stati

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Questo articolo è stato pubblicato il 03 dicembre 2010 alle ore 06:36.

«Se uno stato europeo diventasse insolvente e vi fosse il default sul suo debito pubblico, allora l'Europa si troverebbe a dover salvare le banche che detengono i titoli di quello stato. Non credo sia la strategia giusta. Bisogna invece correggere il trattato di Maastricht. Se gli europei decidono di fare altro e di girarci intorno, per esempio con il default di uno stato, faranno precipitare la situazione innescando una catena di eventi. I politici devono sempre valutare le conseguenze a lungo termine delle loro politiche, e devono accertarsi che funzionino anche per la crescita economica.

Trovo molto strano che si continui a dare la colpa alle banche per i default degli stati e che le banche vengano accusate di speculare sui titoli di stato: le banche sono i più grandi detentori di questi titoli». Jamie Dimon, 54 anni, chief executive officer e chairman del gruppo JP Morgan Chase, considerato uno dei più potenti e influenti banchieri al mondo, scuote la testa alla domanda sul pericolo di default di uno stato europeo e sull'intenzione di Bruxelles di prevedere la ripartizione delle perdite anche tra i privati, nell'eventualità della ristrutturazione di un debito sovrano europeo.
Intervistato in occasione della recente visita a Roma per l'avvio della nuova attività di global corporate banking in Italia di JP Morgan Chase, Dimon affronta il tema centrale in questo momento in Europa, il rischio di default di uno stato. Per lui è rischioso, può scatenare un effetto-domino e non risolverebbe i veri problemi dell'Europa. «I titoli di stato sono usati dalle banche per la liquidità e sono considerati l'asset più sicuro, questo è un principio fondamentale per tutta l'economia. È vero che in passato alcuni stati sono falliti ma è un dato di fatto che le banche dipendono dalla solvibilità dei titoli di stato. Basilea 3 richiede alle banche di comprare questi titoli e di tenerli per garantire standard di liquidità. E in Basilea 3 i titoli di stato non assorbono capitale. Trovo bizzarro che proprio adesso ci dicano che invece non sono sicuri».

Tutto questo quindi è un paradossale controsenso...
Faccio un esempio. Quando il Governo americano ci ha dato 25 miliardi di dollari (JP Morgan Chase non li aveva richiesti, ndr) in quello stesso momento la nostra banca stava prestando 100 miliardi di dollari allo stato americano perché deteneva titoli del Tesoro Usa per 100 miliardi. Se andiamo a vedere dentro il bilancio di una banca, troviamo enormi quantità di titoli governativi.

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Ma si dovrà pur uscire da questa situazione in Europa. L'euro è sotto attacco. Qualcuno dovrà pur pagare il conto, perché un conto c'è.
L'Unione europea è di per sé un'iniziativa magnifica. Quello che gli europei hanno fatto negli ultimi 60 anni non ha precedenti. L'Ue attraversa un momento difficile, una crisi di crescita, ma resiste. I criteri di Maastricht, il metodo della carota e del bastone, non hanno funzionato come avrebbero dovuto: alcuni paesi hanno speso troppo. E questo meccanismo dovrà essere messo a posto. Serve più equilibrio nelle politiche economiche. Non è possibile che in Europa alcune persone possono andare in pensione a 52 anni e altri posso farlo a partire dai 65. E poi pretendere che i cittadini europei che vanno in pensione molto tardi paghino per chi diventa pensionato molto presto. Negli Usa abbiamo lo stesso problema: parte del nostro deficit fiscale è legato alla spesa per l'assistenza sanitaria e previdenziale.

L'Europa e in particolar modo l'Italia crescono meno degli Stati Uniti e temono di essere un vecchio Continente e un vecchio paese che non attraggono capitale rispetto alle economie giovani e galoppanti asiatiche. Lei aveva predetto che l'economia americana avrebbe evitato il «double dip» e ha avuto ragione. Ora come vede la situazione?
La situazione sta migliorando negli Stati Uniti e in Europa: solo 12 mesi fa tutti ci saremmo aspettati una situazione peggiore di quella attuale. L'America è più forte di quello che la gente crede. Ha mostrato una ripresa più vigorosa delle attese. E i segnali dal settore corporate e dai consumatori sono positivi. Questo si spiega con la solidità strutturale del nostro sistema. La crescita europea intanto si attesta attorno ad una media dell'1 per cento. L'Italia non è parte del problema. Al contrario, l'Italia sta aiutando la ripresa dell'Europa e ha fatto meglio di altri paesi europei. È evidente che alcuni stati, come Brasile e Cina, crescono più velocemente di altri. Ma questo non significa che Europa e Stati Uniti siano meno importanti per noi solo perché crescono a un tasso minore rispetto al altre regioni, come l'Asia, per esempio. Il fatto che investiamo nei mercati emergenti non significa che non investiamo in Europa. Stati Uniti ed Europa sono ugualmente importanti: rimangono le due economie più grandi al mondo, pesano più del 50% sul Pil globale.

Che consigli darebbe all'Europa e all'Italia per stimolare la crescita?
Una buona politica economica è importante. Per esempio in alcuni paesi sono state introdotte tasse che hanno generato la fuga dei capitali. O in altri il mercato del lavoro è diventato eccessivamente rigido: anche se questo è stato fatto con le migliori intenzioni, con motivazioni etiche, alla fine un mercato del lavoro troppo rigido ha creato minore occupazione. Le implicazioni delle scelte di politica economica sono importanti e hanno un impatto enorme. Prendiamo il Brasile: lì hanno introdotto un sussidio statale ma solo per le famiglie che mandano i bambini a scuola e vengono vaccinati. Questo è un esempio di come si può creare ricchezza. Quindi il mio invito ai politici è quello di pensare alle conseguenze di lungo-termine delle loro scelte, anche quando sono ispirate da valori etici: è importante che le scelte politiche funzionino anche per l'economia. Come per le tasse: se dobbiamo pagare più tasse, le paghiamo. Ma se l'introduzione di tasse crea distorsioni nello scenario competitivo, il risultato finale non è positivo per l'economia.

Già, le tasse. Chi intende punire le banche accusandole di aver provocato la peggiore crisi dal dopoguerra lo fa imponendo imposte addizionali. Una tassa straordinaria sulle transazioni finanziarie è sempre dietro l'angolo. Che ne pensa?
Sono fermamente contrario all'introduzione di regole dettate dalla rabbia. È umano, ma le conseguenze possono essere estreme. Ritengo che innanzitutto occorra identificare i responsabili e punire solo chi ha commesso errori. Invece si cercano capri espiatori e si introducono norme e tasse in maniera indiscriminata. Le nuove tasse del governo britannico ne sono un esempio: sono indiscriminate e dunque non eque. Come in ogni altro settore, alcune banche hanno fatto un buon lavoro, altre hanno commesso errori: non condanno gli organi di controllo e di vigilanza per gli errori commessi da alcune istituzioni, dunque non vedo perché noi dovremmo essere condannati per gli errori commessi da altri. JP Morgan fa molto per l'economia su scala nazionale e su scala globale, presta denaro ad aziende, consumatori, stati: nei primi nove mesi di quest'anno abbiamo erogato prestiti per più di mille miliardi di dollari. Per questo ritengo inaccettabile che sulla base di reazioni irrazionali la mia azienda e l'intero settore finanziario debbano pagare per errori che non hanno commesso. JP Morgan sta pagando 5 miliardi di dollari per il fallimento di piccole banche americane.

Le banche che hanno commesso errori allora secondo lei dovrebbero fallire? E cosa dire dei ceo che hanno sbagliato politica mandando la propria banca a gambe all'aria?
Penso che sì, le banche dovrebbero poter fallire. A mio modo di vedere è importante che le autorità di vigilanza assicurino che la procedura della bancarotta sia opportunamente gestita con modalità che non danneggino l'economia. Al momento l'intero sistema bancario sta pagando il prezzo di sbagli commessi da pochi. E questo, ripeto, è ingiusto. Preferisco l'approccio razionale. È legittimo lamentarsi quando certe aziende e i loro amministratori sbagliano e non fanno un buon lavoro: in questo caso è giusto che l'amministratore delegato si assuma le sue responsabilità e paghi per i propri errori. Prendiamo per esempio la questione della remunerazione dei banchieri. Ho eliminato i cosiddetti golden parachutes dieci anni fa. E la banca potrebbe chiedermi di restituire i bonus che mi ha pagato da qui a tre anni, se emergesse che ho fallito nel mio lavoro. Questo è giusto.

L'introduzione di nuove regole, a livello locale, nazionale e globale e l'arrivo di nuove authorities interesserà l'intera industria finanziaria e bancaria. Che ne pensa del rafforzamento della regolamentazione come reazione alla crisi?
Sono d'accordo con chi ritiene che molte cose debbano essere migliorate. È positivo per il nostro settore avere un sistema regolamentare più forte. Sono favorevole all'obbligo di requisiti di capitale più elevati e alla definizione di standard di liquidità per le banche. Ma ora si corre il rischio di un'eccessiva regolamentazione e di creare confusione e introdurre la duplicazione di molte norme. Il sistema non viene semplificato con l'ingresso di regole su diversi livelli e con l'arrivo di un maggior numero di authorities. Solo negli Stati Uniti con questa riforma avremo dieci nuove autorità regolamentari primarie. Non sappiamo ancora come lavoreranno, come si coordineranno tra di loro e chi vigilerà sul loro coordinamento. Sono favorevole a regole globali per il capitale delle banche e a nuove norme purché il sistema sia mantenuto semplice e non si creino costi eccessivi o – paradossalmente – si introducano più rischi nel sistema.
Per esempio non mi pare abbia molto senso chiedere solo alle banche americane di spostare alcune posizioni in derivati in entità legali separate, senza applicare uno standard in maniera coerente a livello internazionale. Detto ciò, vogliamo servire i nostri clienti al meglio e continueremo a farlo anche quando le nuove regole saranno entrate in vigore, anche se questo vorrà dire in qualche caso rinunciare al fatturato.

Lei si è dichiarato favorevole anche alla stretta sui derivati. Perché?
Sono favorevole alle «clearing houses», le stanze di compensazione, per i derivati perché introducono la standardizzazione e semplificano il mercato attraverso procedure di liquidazione. È importante tuttavia che venga mantenuto un certo grado di flessibilità. Ma sono convinto che il mercato dei derivati migliorerà e diventerà più efficiente con le «clearing houses».

Tutto questo non aumenterà i costi di transazione e quindi il costo per l'utente finale che può essere un'impresa non finanziaria che ha bisogno di coperture?
Il mercato continuerà ad avere bisogno di contratti over-the-counter, non tutti i derivati potranno essere negoziati attraverso le «clearing houses». Questo perché le stanze di compensazione devono stabilire il valore del contratto per fissare il margine e questo può essere fatto solo per prodotti standardizzati. Al momento non è chiaro se gli end-users, gli utenti finali, dovranno pagare i margini direttamente alle «clearing houses» o attraverso banche-intermediari. In ogni caso, noi riteniamo che JP Morgan non avrà problemi. Ma ci preoccupiamo per gli effetti che queste normative avranno sui nostri clienti. Sarebbe più facile se gli end-users pagassero i margini attraverso le banche che possono accettare diverse forme di collateral, come i prestiti alle Pmi garantiti da banche di medie dimensioni. Le «clearing houses» devono essere più rigide, accettano cash, titoli di stato e bond con rating AAA.

Le regole cambiano continuamente, i mercati diventano sempre più globalizzati e i clienti maggiormente esigenti. JP Morgan è un colosso mondiale: come riesce a muoversi agilmente e ad adattarsi velocemente ai cambiamenti?
È vero, siamo grandi: ogni giorno sui nostri trading desk intermediamo circa 2.500 miliardi di dollari di titoli e eseguiamo pagamenti per conto dei nostri clienti in tutto il mondo per circa 10mila miliardi di dollari.
Quando abbiamo acquisito Bear Stearns abbiamo consolidato attività e prodotti nel giro di un anno. I nostri traders hanno iniziato immediatamente a lavorare con i trader di BS per verificare le posizioni e valutare rischi ed esposizioni. Dei 236mila dipendenti che abbiamo nel mondo almeno mille si occupano solo di valutazione del merito di credito: concedere prestiti non è un lavoro facile. Abbiamo circa 500 esperti legali, 500 compliance officers. E spendiamo 2 miliardi di dollari circa ogni anno in investimenti in nuove tecnologie. Il risk management per noi è fondamentale.

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