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Silvio e l'asse del controribaltone. Quattro scenari possibili per il dopo 14 dicembre

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Questo articolo è stato pubblicato il 05 dicembre 2010 alle ore 14:06.
L'ultima modifica è del 05 dicembre 2010 alle ore 14:39.

Camera chiusa, bocche fin troppo spalancate. E mentre i contendenti sparano l'uno contro l'altro raffiche verbali d'improperi, avvertimenti, ingiurie, mentre gli altolà rimbalzano perfino verso il Quirinale, in questa lunga attesa non ci resta che misurare i due scenari della crisi: il Parlamento vota la sfiducia, e dunque il governo di Silvio Berlusconi si dimette; il Parlamento conferma la fiducia, sicché l'esecutivo rimane ancora in sella. Ma davvero non c'è spazio per altre soluzioni?


A ragionarci sopra, le subordinate sono un altro paio. Per metterle in fila, dobbiamo anzitutto interrogarci sui fatti e gli antefatti della crisi. Sappiamo qual è la posta in gioco: un governo tecnico per il dopo Berlusconi, temuto dai primi come la peste nera, invocato dai secondi come una Madonna pellegrina. Ma perché il Pdl vuole a tutti i costi che il Senato s'esprima un minuto prima della Camera? E perché Berlusconi ripete a giorni alterni che non gli basta vincere per un voto di scarto, che lui punta viceversa a un sostegno più largo e più convinto delle assemblee legislative?

Da qui il terzo scenario: il governo incassa la fiducia del Senato, poi Berlusconi si dimette senza aspettare il voto della Camera, reclamando immediatamente un nuovo incarico, che a quel punto sarebbe pressoché impossibile negargli. E se poi non gli riesce di quadrare i numeri, se non coagula gli appoggi necessari al Berlusconi-bis, allora invoca lo scioglimento della Camera, tanto lui in Senato una maggioranza ce l'ha già. Oppure dopo la fiducia del Senato si sottopone alla sfiducia di Montecitorio, ma a quel punto sale al Quirinale chiedendo - di nuovo - la rielezione della Camera dei deputati, e soltanto di quella. Insomma un espediente per disinnescare la sfiducia trasformandola in mezza fiducia, per disarmare lo spauracchio del governo tecnico, per trasformare in suicidio collettivo il voto contrario dei deputati.

Riuscirebbe? In Bulgaria sì, in Italia no. Lì c'è un Parlamento monocamerale, da noi la mezza fiducia è sempre una sfiducia tutta intera. Per governare devi procurarti l'avallo di ambedue le Camere, altrimenti crisi, consultazioni e via: avanti un altro. Semmai il vero colpo che Berlusconi potrebbe avere in canna è il quarto scenario della crisi, quello che non t'aspetti, quello che spiazzerebbe l'opposizione e il Quirinale. Funziona così: l'esecutivo strappa la fiducia sia al Senato sia alla Camera, magari sul filo del rasoio. Dopo di che il presidente del Consiglio, anziché cantare vittoria a squarciagola, va da Napolitano con le dimissioni in mano. Per quale ragione? Perché non vuol finire come il governo Prodi, vivacchiando su un gruzzolo di voti ballerini. Ma soprattutto perché s'infilerebbe in tasca l'attestato che il Parlamento non sa esprimere maggioranze alternative. Dunque niente governi tecnici, anzi niente consultazioni, dato che le Camere sono state appena consultate attraverso il voto di fiducia. Dunque subito elezioni, ovviamente col porcellum, e perciò con il premio di maggioranza all'orizzonte per la coppia Bossi-Berlusconi. La fine di Fini, un controribaltone che a sua volta rovescia tutti gli altri ribaltoni.

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E Napolitano? A un primo sguardo, parrebbe di vederlo con le mani legate, anzi con le manette ai polsi. Che senso avrebbero le consultazioni in questa prospettiva? E come potrebbe chiedere al dimissionario di ripresentarsi in Parlamento, quando ne è appena uscito prima di salire al Quirinale? Con che pretesto potrebbe negare a Berlusconi il lavacro elettorale, quello che monda ogni peccato?

Tuttavia bisogna sempre diffidare delle prime impressioni. Se fosse vero che un governo sostenuto dalla fiducia delle assemblee parlamentari può indire le elezioni semplicemente dimettendosi nelle mani del capo dello Stato, allora quest'ultima figura non sarebbe che un orpello, un soprammobile nella casa delle nostre istituzioni. Se fosse vero che la fiducia manifestata nei riguardi d'un governo non possa convertirsi il giorno dopo nella fiducia verso altri governi, allora ogni esecutivo durerebbe per tutti i secoli a venire. Se fosse vero che la fiducia espressa a voto palese da deputati e senatori significa un appoggio sincero, allora non avremmo assistito allo spettacolo che si è consumato dal 30 settembre in poi, quando Berlusconi aveva già ottenuto la fiducia.

No, neanche il quarto scenario della crisi può decapitare il ruolo del capo dello Stato, né quello dei partiti. Le dimissioni del presidente del Consiglio - spontanee o forzate, con o senza un voto di fiducia - in ogni caso riaprono le danze, e a quel punto dipenderà dai ballerini. L'unica cosa certa è che avremo tutti da ballare.
michele.ainis@uniroma3.it
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