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Questo articolo è stato pubblicato il 06 febbraio 2011 alle ore 08:10.
Naguib Mahfouz, il romanziere egiziano premio Nobel, che passava i giorni nei caffè del vecchio Cairo, amava ripetere agli amici «Potete giudicare un uomo intelligente dalle sue risposte, ma lo giudicherete saggio solo dalle sue domande». Era quasi cieco alla fine della vita, ma nessuno conosceva quelle strade, quella capitale e quella gente come lui. Oggi tv e giornali, le cancellerie raccolte a Monaco, gli ultimi consiglieri stretti intorno al cadente Mubarak, i tanti «esperti» dei talk show, perfino i dimostranti in piazza Tahrir, avvezzi alle telecamere e lesti con Twitter e Facebook, sono pronti con le risposte. Andrà così, la transizione verso la democrazia «deve» essere graduale, come hanno detto con gravità a Monaco il segretario di stato Hillary Clinton e la cancelliera tedesca Merkel. No, occorre accettare che in democrazia gli incidenti capitano, «stuff happens», e aprire i cancelli alla libertà, come predicava il ministro della difesa Usa Rumsfeld nel 2003, ai tempi della guerra in Iraq. Oggi tanti neoconservatori di un tempo, Caldwell per esempio, sono cauti: coraggiosi ai tempi di Saddam Hussein, temono ora - come i realisti allora, ricordate Kissinger e Scowcroft? - che il futuro sognato sia peggiore del detestato passato.
È l'incubo di Israele, che abituata a considerare ormai gli 85 milioni di egiziani confinanti sul Sinai, neutralizzati dagli accordi di pace con Sadat e dai milioni di dollari versati in quasi 40 anni dagli Usa all'Egitto, teme di vedersi accerchiata da due nemici. Da una parte l'Iran che sogna la bomba atomica, dall'altra parte un Egitto dove, tornati a casa i ragazzi pacifici con cellulari e computer, il potere scivoli ai Fratelli Musulmani che il saggio Mahfouz aveva finito per detestare o, peggio, alle ali radicali del fondamentalismo salafita.
Lasciate perdere dunque le risposte, osservando le storiche giornate che dalla caduta di Zine el-Abidine Ben Alì in Tunisia, ci hanno portato alla rivolta in Egitto, all'onda d'urto in Giordania dove il re Abdullah ha sciolto il governo e nominato un primo ministro beduino, Marouf Bakhit, sperando di calmare le tensioni tra le tribù del regno hashemita, fino allo Yemen dove scricchiola il potere del presidente Ali Abdullah Saleh, in carica dal 1978.