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Le intenzioni e la realtà, il sentiero stretto della maggioranza

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Questo articolo è stato pubblicato il 08 febbraio 2011 alle ore 08:29.
L'ultima modifica è del 08 febbraio 2011 alle ore 07:40.

Il dilemma ben riassunto da Ernesto Galli Della Loggia sul «Corriere della Sera» è sempre lo stesso. O si riesce a realizzare una tregua duratura in grado di dare un senso all'ultimo biennio della legislatura oppure è più onesto scegliere la via delle elezioni anticipate. Silvio Berlusconi tenta di ancorarsi alla prima ipotesi e il suo piano di rilancio economico, pensato per ritrovare credibilità e consenso presso il mondo produttivo, contiene una serie di ottime intenzioni.

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Avrebbe dovuto costituire la priorità del governo fin dall'inizio del cammino, nel 2008, e invece sono passati quasi tre anni. Il presidente del consiglio sostiene che oggi la coalizione è più coerente e compatta di ieri perché sono stati eliminati quelli che «remavano contro». Ma è proprio così?

Difficile sostenere che, se l'azione del governo non è stata incisiva, ciò è dipeso dalla presenza nella coalizione di Gianfranco Fini e dei suoi seguaci ora passati all'opposizione. La verità è che il quadro politico, molto favorevole alle riforme all'inizio della legislatura, ora appare usurato e in buona misura compromesso. Per cui c'è una discreta contraddizione tra gli obiettivi ambiziosi che vengono proposti (crescita economica, competitività, piena attuazione del federalismo fiscale, riforma della giustizia) e la realtà parlamentare di una maggioranza che un tempo era ampia e oggi è ridotta al minimo.

Come è noto, Berlusconi è ancora convinto di poter dominare la scena parlamentare. Quei 315 voti della Camera (in realtà 316) che hanno respinto le richieste della procura di Milano sono la base da cui il premier intende ripartire. Tant'è che domani il consiglio dei ministri darà forma al piano di sviluppo, compreso il disegno di revisione costituzionale di tre articoli della Carta.

È come se Berlusconi volesse dire: da oggi in poi parliamo di cose serie. Ma è lecito nutrire qualche dubbio su tale ottimismo. Lo stesso ministro Calderoli, votato al federalismo, sosteneva ieri che è indispensabile rivedere la composizione della commissione bicamerale presieduta da La Loggia. È l'organismo che di fatto ha bocciato il cosiddetto federalismo municipale e che ora deve occuparsi del fisco regionale. Se non si riequilibrano in fretta i rapporti di forza a favore della maggioranza e a svantaggio del «terzo polo» un secondo esito negativo è scontato. Ma non sarà semplice riuscirci.

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Quanto alla riforma della giustizia, se il problema su cui si sta concentrando il governo è il «processo breve» attendiamoci la paralisi in Parlamento e il massimo della tensione nelle piazze (i finiani sono stati chiari al riguardo, più dei loro alleati dell'Udc). Senza dimenticare che sullo sfondo prende forma l'imminente referendum sul «legittimo impedimento»: in mancanza dello scioglimento delle Camere la consultazione avrà luogo tra maggio e giugno e si trasformerà, come è ovvio, in un plebiscito pro o contro Berlusconi. Con tutte le asprezze del caso.

Come si capisce, non sembrano esserci le condizioni per una tregua stabile. Non a caso il presidente della repubblica ha sentito il bisogno di condannare i disordini avvenuti domenica davanti alla residenza di Berlusconi ad Arcore. Napolitano non perde occasione per svelenire il clima perché si rende conto del corto circuito a cui il paese è esposto. Stavolta il suo intervento è piaciuto al centrodestra: lo schieramento che l'altro giorno lo aveva criticato a mezza bocca per il freno al federalismo.

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