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Commenti e Inchieste

Nessun margine per una riforma condivisa della giustizia

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Questo articolo è stato pubblicato il 22 febbraio 2011 alle ore 08:51.
L'ultima modifica è del 22 febbraio 2011 alle ore 08:04.

«La riforma della giustizia si farà» garantisce il ministro Alfano. E si farà - insiste - anche la riforma della Corte, adombrata nei giorni scorsi dal presidente del Consiglio, ma in termini punitivi verso i giudici della Consulta. S'intende che ci vuol altro per dissipare il generale scetticismo. Lo scenario in cui cadono queste e altre affermazioni non promette certo un clima propizio ad affrontare un tema così cruciale.

Sono anni, peraltro, che la riforma viene proposta a parole, senza che mai seguano i fatti. Per essere concreti la si doveva avviare all'inizio della legislatura. Oggi, con i processi di Berlusconi alle porte e un aspro, permanente scontro politico-istituzionale, perché mai si dovrebbe essere ottimisti?

In realtà Berlusconi e i suoi ministri non suggeriscono un percorso costituzionale realistico per realizzare davvero la riforma della giustizia. Quello che propongono è un progetto politico con tre obiettivi. Primo, garantire la compattezza di una maggioranza di centrodestra che in queste settimane ha dimostrato di esistere e che oggi ruota intorno ai 320 voti alla Camera. Non è proprio la soglia di sicurezza desiderata dal premier, ma quasi.
Secondo, utilizzare il tema della giustizia come strumento privilegiato per mantenere alta la tensione nel paese. Si capisce infatti che l'attacco alla Consulta può avere un'utilità solo politica, mentre sarebbe controproducente se il traguardo fosse una riforma condivisa dell'istituto. In questo secondo caso, l'unica strada è quella che s'intravede nelle parole di Giorgio Napolitano: considerare la Costituzione e i suoi princìpi un essenziale «punto di riferimento». Solo così sarebbe possibile costruire nel tempo quell'ampia intesa necessaria per modificare qualche capitolo della Carta senza strappi pericolosi.

Terzo obiettivo: esportare un po' di contraddizioni nel centrosinistra. L'appello ai «garantisti» del Pd perché escano dal loro riserbo e accettino un compromesso almeno sul ripristino dell'immunità parlamentare, ha un sapore strumentale. È vero che nell'opposizione la linea favorevole all'immunità ha molti sostenitori (da Violante all'Udc ad alcuni esponenti di «Futuro e Libertà»). Esiste anche un ddl costituzionale «bipartisan» che porta le firme di Franca Chiaromonte e Luigi Compagna. Ma in termini politici non esiste - per le ragioni qui riassunte - un clima idoneo a realizzare una convergenza destra-sinistra. Non adesso e non con Berlusconi gravato dalle imputazioni che conosciamo.

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Semmai dalla polemica in corso s'intuisce che esiste, sulla carta, uno spazio per interventi comuni sulla giustizia. Ma non all'interno di questa cornice politica. I cosiddetti «garantisti» dell'opposizione dovranno mordere il freno. E del resto è chiaro che Berlusconi preferisce appiattire il centro e il centrosinistra sulla linea intransigente di un Di Pietro. È una manovra ripetuta più volte negli anni, spesso con successo.

Nel frattempo la crisi libica rischia di modificare l'agenda delle priorità. Dovrebbe essere il terreno della coesione nazionale, come ha suggerito Casini. Lo stesso Romano Prodi è apparso cauto e ha giustamente messo in rilievo che il problema è la disunione dell'Europa. Viceversa la polemica su Berlusconi amico di Gheddafi è fuorviante, visto che il trattato italo-libico è stato approvato in Parlamento quasi da tutti, poco più di un anno fa. Uniche eccezioni l'Udc e l'Idv.

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