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Questo articolo è stato pubblicato il 15 marzo 2011 alle ore 07:50.

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KESENNUMA- «Non potevo credere ai miei occhi: ero su al golf e la tv mostrava la violenza dello tsunami. Non era un film: era la mia casa, la mia città, ad essere spazzata via». Kenro Chiba, 74 anni ben portati, manager del Kesennuma Country Club, è stato capitano della nazionale giapponese di canottaggio a otto alle Olimpiadi del 1960. «Proprio il team italiano ci eliminò, sul lago di Albano. Sono tornato a Roma l'anno scorso per le celebrazioni del cinquantenario», ricorda con un sorriso estraneo alla scena lì intorno: l'ex paradiso della pesca del tonno è una città-fantasma.

Al pari della cittadina un po' più a nord, Rikuzentakata, e di Minamisanrikucho a sud, dove ieri sono stati ritrovati un migliaio di corpi (sul totale di oltre 2mila nell'intera costa della provincia di Miyagi che da sola fa ipotizzare almeno 10mila morti).

A Kesennuma una collina ha rappresentato la salvezza: molti hanno fatto in tempo a trovarvi rifugio. I barconi hanno invaso le strade scontrandosi con auto e furgoni. Appoggiati alle pareti degli edifici in muratura, gli unici che hanno resistito. Tutto quanto era legno e lamiera è crollato: i tetti a pagoda sono quasi intatti, ma giacciono a terra. Una pantofola in mezzo alla strada ricorda che tutt'intorno c'era vita.

Alle prime luci dell'alba, la temperatura è sottozero: siamo al nord-est, l'inverno morde ancora senza pietà. A poco a poco, nella città-fantasma, dove solo la strada principale è stata sgombrata, arrivano segni di animazione. Alcune persone tornano dai rifugi di fortuna a vedere quel che resta delle proprie abitazioni. In cielo volteggiano gli elicotteri dei soccorsi con i generi di prima necessità.

«Di dove siete, che fate?», si affaccia una signora al piano alto di un edificio sul porto. «Andate via, non avete sentito alla tv che c'è un nuovo allarme tsunami?». E lei? «Io non mi sposto da qui. Ho una persona anziana in casa che non può muoversi: nessuno è ancor a venuto a spostarla». Non è l'unica a preferire di rimanere in una abitazione non agibile: anche Koichi Utsumi, 46 anni, non si stacca dalla sua casetta e dal suo negozietto, anche se all'interno il caos è assoluto e il rischio di crollo è imminente.

Nessuno qui si premura di forzare gli sgomberi. La presenza di autorità e squadre di soccorso è minima. Passano i mezzi delle forze armate. Si teme un un nuovo terremoto (in giornata ci saranno forti e ripetute scosse). C'è un allarme nucleare: a poco più di 50 chilometri si trova la centrale di Onagawa. «Certo che sono preoccupato per la centrale atomica - dice un anziano passante quasi curvo -. Se ha problemi, chissà quando tornerà l'elettricità». «Allarme nucleare? Non ci pensiamo, il problema più urgente ora è la mancanza di coperte», afferma un altro signor Chiba (sembrano chiamarsi quasi tutti così da queste parti), un responsabile dei soccorsi al centro comunale che fa da rifugio di prima accoglienza (ne sono stati allestiti una ventina, per 10mila sfollati) e cabina di regia di una macchina organizzativa che appare approssimativa.

La distribuzione di acqua potabile avviene in modo improvvisato: mestoli e secchi da stalla, imbuti di fortuna per riempire le bottiglie che la gente porta con sé. Nessuno si aspetta troppo dalle autorità, tutti danno per scontato di doversi arrangiare.

In una bacheca ci sono centinaia di messaggini scritti a pennarello: sono per la ricerca di familiari e amici. Telefoni e telefonini non funzionano, trovarsi e riabbracciarsi diventa un'impresa, una speranza. Il municipio non abbonda nel cibo, anzi. Verso i pochi supermercati aperti nell'entroterra si formano lunghissime code, i rifornimenti non arrivano, strade e ferrovie sono bloccate.

Il dubbio ingenuo che, dopo la tragedia, il cibo sia gratis è presto dissipato: «No, no, dobbiamo pagare». Sono file ordinate, nessuno si lamenta. È l'antica dignità di un popolo, e forse anche il riflesso dell'atavica rassegnazione a non chiedere troppo ai poteri pubblici. Intromettersi negli affari altrui è sempre negativo: di qui la mancanza di un senso di immediata solidarietà, anche verso chi avrebbe evidentemente bisogno di una mano (e non la chiede). In uscita da Kesennuma, la strada si blocca all'ingresso della baia di Mitsuiwa: la scena è apocalittica, l'acqua e l'odore del mare ristagnano, la violenza dello tsunami ha modificato la costa e sommerso le case, nessuno può più entrare.

Tra la calma eccessiva della popolazione e la carenza evidente dell'azione amministrativa, a Kesennuma come nelle emergenze nucleari vecchie e nuove trova conferma la sensazione che ogni straniero prova in Giappone: qui non si è tanto bravi a gestire le situazioni straordinarie. L'approccio burocratico arriva all'assurdo. Davanti all'edificio diroccato della banca locale, tre impiegati fissano con qualche difficoltà, con lo scotch, un cartello scritto a mano: «Si avverte la clientela che il servizio è sospeso». Non è già fin troppo evidente? «È meglio che sia chiarito in modo esplicito», afferma il capo dei tre. Non scherza. Fa il suo dovere.

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