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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2011 alle ore 06:37.

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L'arrivo il 22 marzo 2011 di quasi 400 immigrati a Lampedusa (ANSA/ FRANCO LANNINO-MICHELE NACCARI)L'arrivo il 22 marzo 2011 di quasi 400 immigrati a Lampedusa (ANSA/ FRANCO LANNINO-MICHELE NACCARI)

Kifaya! Lo slogan arabo della rivoluzione dei gelsomini ondeggia come i corpi delle centinaia di tunisini che attraversano le interminabili notti lampedusane. Si girano e rigirano tra vecchie coperte consunte. Sono stretti uno accanto all'altro, la testa appoggiata a un muretto a secco, i piedi nudi e squadrati da antichi marinai punici che sfiorano le fioriere piene di erbacce della stazione marittima.

Se non fosse per quest'ordine improvvisato, sembrerebbero cetacei spiaggiati, balenotteri ingannati da un falso richiamo che alla fine li ha traditi. «Kifaya» significa basta, non ne possiamo più, siamo al limite. E il suono di kifaya rimbalza dalle case di tufo dei lampedusani al centro di accoglienza stracolmo di 2.500 migranti, dalla stazione marittima popolata da 2.300 fantasmi all'area marina protetta che tra poster della tartaruga Caretta Caretta e percorsi didattici per i più piccoli ospita 260 tra ragazzi e bambini maghrebini "non accompagnati". Alcuni di loro da due giorni rifiutano il cibo. Qualcuno ha tentato gesti autolesionistici. Solo la dedizione delle volontarie di "Save the children" e il soccorso delle mamme lampedusane che portano giochi, cibo, vestiti, ha evitato che la situazione degenerasse. Lampedusa non è un paese per migranti minorenni senza genitori.

Kifaya è una parola che urlano disperati che unisce giovani e vecchi, lampedusani e africani. Tra loro si intendono a gesti, con gli sguardi puntuti in cui eccellono questi siciliani sperduti nel Canale di Sicilia e i loro dirimpettai tunisini. È un dialogo muto, un'alternanza di sorrisi e occhi neri come catrame che spesso si abbassano di colpo, come se si vergognassero di aver rinnegato la loro patria nel nome di un Occidente che dice di non sapere cosa farsene. Molti di questi ragazzi parlano fluentemente francese, arabo, spesso anche inglese. Diplomati e laureati non si contano. Il dittatore Ben Ali, cacciato dalla rivoluzione dei gelsomini, ribadiva a ogni occasione «Gli studenti sono la nostra ricchezza nazionale». La ricchezza galleggia da mesi su qualsiasi pezzo di legno che abbia una sola possibilità di solcare il Mare Nostrum. Gli africani sbarcano da vent'anni, come se seguissero i ritmi delle tartarughe marine che nidificano nell'isola dei Conigli. È un flusso dettato dalla perentorietà dei cicli biologici.

Questi migranti con la pelle color cioccolato potrebbero essere i figli ventenni che le coppie italiane non sono stati capaci di mettere al mondo. Figli adulti, scolarizzati, bilingue. Pure questa, a suo modo, un pezzo di generazione allevata dalla liturgia della televisione italiana, di cui i tunisini sono instancabili consumatori. Generazione Rai e Mediaset, tanto per non fare un torto a nessuno.

Rarissimo ascoltare parole sagge su questo melting pot siculo-africano che quasi da un quarto di secolo va in scena a Lampedusa, una piattaforma naturale tra Maghreb e Sicilia. Fino a qualche settimana fa il sindaco di Lampedusa, Bernardino de Rubeis, si vantava della straordinaria forza assorbente della sua isola: «Nel 2008 ne arrivarono 38mila» diceva orgoglioso. Ora lancia il suo quotidiano Sos, strattonato da una parte e dall'altra da una giunta comunale litigiosissima nella quale fino a un mese fa convivevano l'ex generale dei carabinieri e ribelle del Cocer – il sindacato dell'Arma – Antonio Pappalardo e la ristoratrice e pasionaria leghista Angela Maraventano. Una piccola vittoria de Rubeis può ascriverla a suo merito grazie all'intercessione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: la tendopoli che aveva fatto imbufalire i suoi concittadini non si farà a Lampedusa. Forse in Sicilia, ma è una partita tutta da giocare. Tante tende in meno e qualche parola meditata in più. Dice il cantante Claudio Baglioni, 'O Scià (dal dialetto sciatu, soffio vitale) di Lampedusa. «Sull'immigrazione c'è un grande deficit culturale. Qui tutti rischiano di avere ragione e torto allo stesso tempo. L'unica cosa che non possiamo permetterci è la paura».

Difficile non avere gli sguardi annebbiati mentre gli sbarchi continuano incessanti come le onde del mare: dalla mezzanotte di ieri prima 105, poi 22, 64, 52 e 40. Altre centinaia di tunisini sono attesi in questa notte con il mare piatto e il cielo ricamato di stelle. E la nave della Marina militare San Marco, quasi una piccola portaerei con cinque elicotteri a bordo che dovrebbe raggiungere Lampedusa per le prime ore di questa mattina, non potrà caricarne più di 500, 600 al massimo. Pure questo è un ritmo che abbiamo imparato a conoscere. Tunisini e isolani schiacciati gli uni sopra agli altri nell'imbuto di Lampedusa.

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