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Questo articolo è stato pubblicato il 29 marzo 2011 alle ore 09:58.

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Con kalashnikov, materassi e narghilè ammucchiati sui pick-up la colonna degli shebab si muove per dare l'assalto alla Sirte. Qui ad al-Hasun, a 70 chilometri dalla roccaforte della tribù di Gheddafi, si alza una colonna di fumo nero, una pompa di benzina in fiamme che brucia insieme alle nostre speranze di fare il pieno. Ma questa singolare armata rivoluzionaria, con il morale alle stelle dopo la conquista dei terminali petroliferi, per darsi coraggio moltiplica le grida di «Allah u Akbar»: ecco un altro segnale che il fronte si avvicina, si sentono le esplosioni dell'artiglieria pesante del Colonnello che difende la città.

Non è una marcia militare, con generali e colonnelli, piuttosto una cavalcata disordinata dei rivoluzionari lungo l'asse che fu un tempo la via Balbia della colonizzazione italiana. Le milizie di Gheddafi hanno abbandonato Ras Lanuf e Brega quasi senza combattere, una ritirata tattica, non disordinata, senza lasciare indietro neppure un mezzo. Gli unici resti carbonizzati di artiglieria e di qualche blindato risalgono a una settimana fa. Gli shebab hanno avuto vita facile dopo la caduta di Ajdabiya: qui i raid aerei della coalizione internazionale sono stati decisivi per sloggiare i gheddafiani da un nodo strategico. Dopo si è aperta la strada e hanno percorso oltre 300 chilometri fino ad arrivare a minacciare Sirte.

La conquista più importante è stata quella dei terminali petroliferi di Ras Lanuf e Brega. Questo è il vero confine della Cirenaica: la sabbia da bianca e fine diventa rossa e granulosa, spazzata continuamente dal ghibli fino a ricoprire in alcuni punti anche l'asfalto. La bandiera dei ribelli di Bengasi, il tricolore rosso, verde e nero, sventola anche sul pennone dell'Università del petrolio di Ras Lanuf, un edificio bianco e squadrato: nella sabbia della Cireanica è custodito l'80% dell'oro nero libico. Il Consiglio transitorio di Bengasi ha persino annunciato di avere raggiunto un accordo di esportazione petrolifera con il Qatar, primo stato arabo a riconoscere ufficialmente i rivoluzionari. Forse non è un caso che al-Jazeera, basata a Doha, continui a trasmettere notiziari con mirabolanti conquiste degli shebab. «In meno di un settimana potremo produrre dai 100 ai 130mila barili», ha dichiarato Tarhouni, responsabile economico del Consiglio: qualcuno già sogna di avere una sorta di emirato petrolifero della Cirenaica, la regione "ribelle" che Gheddafi ha sempre punito, lasciandola ai margini dello sviluppo economico.

Ma qui ad al-Hanus, sulla linea del fuoco, si fanno altri conti. «Questa mattina abbiamo raccolto cinque cadaveri: erano shebab morti in battaglia, due stanotte», dice il dottor Ahmed Gnashi, responsabile di quello che chiama «l'ospedale da campo», una postazione mobile costituita in tutto da un paio di autoambulanze. Intorno i giovani combattenti fanno colazione sotto alberi di Nam, le cui foglie, dicono, sono miracolose per la polmonite e un gruppetto si fa fotografare tenendo per i piedi un paio di galline. Non c'è logistica, se non qualche camion di benzina inviato da Bengasi. Tutti si muovono con la propria auto o il pick-up. I camioncini escono dal garage come mezzi normali e lungo la strada si trasformano quando gli occupanti riescono a trovare una mitragliatrice da piazzare sul cassone. È una guerriglia ruspante e, se dietro le quinte ci sono questi famosi consiglieri militari stranieri, francesi o britannici, per ora non sono riusciti a dare un minimo di ordine di battaglia e neppure, forse, a rifornirli di armi pesanti, quelle necessarie ad affrontare i carri armati russi di Tripoli.

Sono i raid aerei internazionali quello che vuole l'armata rivoluzionaria per vincere: il comando della Nato sceglierà di appoggiarli o si limiterà a proteggere i civili?

Anche le comunicazioni sono scarse e poco affidabili. A ogni raggruppamento di uomini armati ci fermiamo sul ciglio della strada a domandare la posizione dei ribelli, nessuno sa di preciso qual è il fronte e dove si combatte: «Avanti Shebab!»: ci si deve fidare, chilometro dopo chilometro, sperando di non incappare in una raffica di missili Grad. «Avanti Shebab»: è così che passiamo Ras Lanuf, Bin Jawad, Naufilia (Nawfaliyah), al-Sultan, fino ad al-Hanus, un villaggio quasi insignificante dove però i rivoluzionari stanno ancora rastrellando le ultime sacche di resistenza delle milizie. Si percorrono centinaia di chilometri (oltre 450 da Bengasi) senza trovare negozi aperti, carburante, luce e acqua: gli unici alberghi, come il Fadil di Ras Lanuf il Kabir di Bin Jawad, sono stati saccheggiati: i rivoluzionari sostengono che sono stati i miliziani di Gheddafi, ma stanotte la passeremo in un alloggio popolato da shebab anche loro piuttosto vivaci e incontrollabili

Le notizie sono frammentarie: in auto quasi tutti sono sintonizzati su Radio Hurra, Radio Libertà, che trasmette in onde medie da Bengasi dove questa mattina all'alba già si festeggiava la caduta di Sirte. Radio Hurra trasmette brani commentati del Corano insieme a musica popolare e rap arabo in uno strano melange di tradizione e modernità.

Sirte, sotto assedio, è il simbolo dei 42 anni di potere di Gheddafi, della sua utopia fallita. Qui arriva il terminale dell'acquedotto che trasporta le acque fossili del Sahara, uno dei grandi progetti attuati per incoraggiare uno sviluppo mai arrivato, In compenso, nella città natale, Gheddafi ha costruito edifici ambiziosi per farne la futura capitale degli Stati Uniti d'Africa: ma sotto di lui anche la Libia adesso si è spezzata.

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