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Questo articolo è stato pubblicato il 31 marzo 2011 alle ore 09:15.

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Nella disordinata giornata di ieri a Montecitorio non ci sono vincitori. Semmai c'è un senso di smarrimento diffuso. Con un elemento di certezza: il caos che si è scatenato sulla «prescrizione breve», portata al voto rovesciando l'ordine dei lavori, lascia intendere che non avremo mai (almeno in questa legislatura) alcuna riforma generale e convincente dell'ordinamento giudiziario. Del resto, chi ne dubitava?

Fin dall'inizio è apparso chiaro che in Parlamento mancano ormai tutte le condizioni politiche per procedere a una riforma tanto ambiziosa. E Berlusconi non può non saperlo. C'è invece la possibilità di sfruttare non senza cinismo le lacerazioni tra maggioranza e opposizione e far passare un certo numero di provvedimenti circoscritti. Ad esempio, il processo breve con le nuove norme sulla prescrizione. Una misura senza dubbio utile al premier, ma con conseguenze assai negative sull'amministrazione della giustizia.

Di qui il clima di rissa che ha incendiato Montecitorio, con incidenti piuttosto gravi che hanno visto in un ruolo di primo piano il ministro La Russa, scagliatosi contro il presidente della Camera. Il che è abbastanza singolare, considerando che il responsabile della Difesa dovrebbe essere concentrato solo sulla grave crisi in Libia. Evidentemente ha del tempo a disposizione. E in ogni caso gli avvenimenti di ieri sono la premessa di quello che dobbiamo aspettarci nelle prossime settimane, se il fulcro dell'iniziativa governativa continuerà a ruotare intorno al duello eterno di Berlusconi con i magistrati.

Le opposte tifoserie sono sempre più agguerrite, sia in aula sia nelle piazze antistanti i palazzi istituzionali. Non è un buon segno per la salute del confronto democratico, ma tant'è. Da un parte una maggioranza risicata e perciò arroccata intorno al suo leader, dall'altro un'opposizione debole e divisa che in questa battaglia trova la sua identità (peraltro sempre più condizionata da Di Pietro e dal «popolo viola»).

È credibile che si vada avanti così ancora per due anni, fino al 2013? Due mesi fa, chi si augurava elezioni anticipate forse aveva visto giusto. Soprattutto perché è sotto gli occhi di tutti che il quadro si va sfilacciando. Le dimissioni del sottosegretario all'Interno, Mantovano, sono apparse un segnale inquietante. Uomo d'ordine e persona seria, Mantovano testimonia con il suo abbandono le ombre in cui sono avvolte le politiche dell'immigrazione. L'emergenza a Lampedusa avrebbe bisogno di un indirizzo chiaro e risoluto. In particolare richiederebbe una forte «leadership» nell'esecutivo. Ma la realtà è piuttosto confusa.

Il filo coerente che dovrebbe unire le scelte del governo centrale, il ruolo delle regioni e la cornice europea ancora non s'intravede. Ieri Berlusconi è arrivato a Lampedusa sull'eco dei giudizi severi pronunciati a New York da Napolitano circa i ritardi del piano d'emergenza. Ha lasciato l'isola dopo aver interpretato ancora una volta se stesso. Un piccolo bagno di folla, un microfono, la tentazione dell'ennesimo «predellino»: promesse scintillanti, un futuro di benessere per i lampedusani (tra i quali lo stesso premier si annovera, avendo annunciato l'acquisto di una villa in loco). Ma proprio le dimissioni di Mantovano rischiano di far cadere il castello di carte. Toccherà al premier dimostrare in fretta che l'emergenza è risolta, che l'Europa non è lontana e che il governo è saldo. Un impegno gravoso.

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