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Questo articolo è stato pubblicato il 12 aprile 2011 alle ore 09:05.
L'ultima modifica è del 12 aprile 2011 alle ore 09:05.

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Il fallimento di Bruxelles è figlio di un'assenza di leadershipIl fallimento di Bruxelles è figlio di un'assenza di leadership

La giornata di ieri è a suo modo memorabile, ma non in senso positivo. Da un lato, l'Italia ha conosciuto un grave smacco politico-diplomatico e si è trovata del tutto isolata in Europa sulla questione immigrazione. Dall'altro, il presidente del Consiglio ha scelto il piazzale antistante il tribunale di Milano per arringare i suoi sostenitori ivi convenuti e attaccare con asprezza i magistrati. Berlusconi ha anche reso nota una nuova versione del «caso Ruby»: le ho dato dei soldi, ha detto il premier riferendosi alla giovane, per dissuaderla dalla prostituzione.

Così, nell'arco di poche ore, abbiamo assistito ai due estremi entro cui si sta avvitando la politica nazionale. Nell'assenza di una vera «leadership» di governo, il ministro dell'Interno Maroni ha dovuto sbrigarsela da solo a Bruxelles e il suo fallimento era annunciato. Fanno impressione i suoi commenti dopo il vertice dell'Unione. Soprattutto una frase («meglio soli che male accompagnati») che ricorda il motto attribuito a certi vecchi inglesi: «nebbia sulla Manica, il continente è isolato».

Purtroppo in questo caso la nebbia di Bruxelles danneggia l'Italia. Secondo il ministro degli Esteri Frattini, il rifiuto di accettare il nostro punto di vista sugli immigrati tunisini segna il trionfo degli «egoismi nazionali». Il che è vero solo in parte, perché stavolta gli europei non sono andati in ordine sparso. Francesi e tedeschi hanno fatto muro, con il sostanziale avallo della Gran Bretagna. Più che di egoismi nazionali si dovrebbe parlare di un patto continentale, o meglio nord-europeo, che ha tagliato fuori l'Italia, troppo debole sul piano politico per far valere le proprie ragioni.

Ci è stato comunicato che i numeri dell'immigrazione sono troppo modesti per far scattare un più alto livello di solidarietà comunitaria. I «visti temporanei» sono stati giudicati una furbizia per liberarsi di qualche migliaio di rifugiati ed è passata una lettura rigorosa, ma non arbitraria, degli accordi di Schengen. In condizioni normali l'Italia avrebbe negoziato al livello dei capi di governo un compromesso onorevole. Così non è stato e i nostri rappresentanti sono andati allo sbaraglio.

Ora la domanda è: continuerà l'assenza di «leadership» e fino a quando? Se così fosse, sarebbero in grave pericolo le relazioni con l'Unione, ossia il caposaldo della presenza italiana sulla scena internazionale. Non a caso certi segnali dicono che si prepara una risposta tra l'approssimativo e il provinciale. Da Maroni che si chiede «ma a cosa serve questa Europa?» a Calderoli che vuole dirottare da un giorno all'altro i soldati da Libano e Kosovo per avviare il blocco delle nostre coste.

L'isolazionismo è ovviamente impraticabile, ma la sola tentazione costituisce un grave errore. Un errore figlio peraltro di uno stato di confusione e di rabbia, in cui la Lega si preoccupa del suo elettorato smarrito e non vuole trovarsi a pagare da sola il prezzo di scelte sbagliate. Ma chi può riannodare i fili con l'Europa? Dovrebbe essere il premier Berlusconi che invece è impegnato nell'estremo duello con la procura di Milano. La contraddizione non potrebbe essere più drammatica. Tanto più che lo stesso Pdl appare in preda a una serie di convulsioni interne. Nei giorni scorsi gli ambienti della maggioranza si lamentavano del ruolo di «supplenza» governativa assunto da Napolitano. In realtà il Quirinale è oggi il soggetto che meglio può sanare la frattura con gli europei. Pensando al futuro del paese.

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