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Questo articolo è stato pubblicato il 01 maggio 2011 alle ore 14:29.
L'ultima modifica è del 01 maggio 2011 alle ore 14:57.

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Un grande testimone che parlava al cuoreUn grande testimone che parlava al cuore

Nel mio studio, la stanza dove trascorro gran parte delle giornate, su un ripiano della libreria che mi sta di fronte, tra le letture predilette di una vita, trova posto una grande fotografia che ritrae il mio abbraccio con Giovanni Paolo II.

Questo articolo è un ampio stralcio del ricordo di Giovanni Paolo II che l'ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ha scritto per il numero speciale del periodico Totus tuus, edito dalla Diocesi di Roma, in edicola da oggi.

Quell'istante rappresenta per me molto di un ricordo. È un'immagine che racchiude il senso di una corrente di umana simpatia avvertita fin dal primo incontro con Giovanni Paolo il 24 giugno 1993. Ero in visita ufficiale come presidente del Consiglio. Il colloquio si protrasse oltre il tempo previsto dal protocollo. Quel nostro primo parlarci si svolse in un clima che percepii quasi subito "speciale". Il Papa lo propiziò rilevando alcune coincidenze: lo stesso anno di nascita e lo stesso nome di battesimo, che ci poneva entrambi - sono parole sue - sotto la protezione di San Carlo Borromeo.

Pochi anni dopo, nel 1999, a queste coincidenze se ne aggiunse un'altra: l'elezione a presidente della Repubblica avvenuta il 13 maggio, festa della Madonna di Fatima e anniversario dell'attentato in Piazza San Pietro. Nel mio studio, il pensiero si volge sovente all'indimenticato Pontefice, "il mio fratello maggiore", come lo avevo definito per i pochi mesi che separavano le nostre date di nascita; lo sguardo indugia su quell'abbraccio, per trarne incoraggiamento, serenità interiore. Il rapporto con il Papa resta per me un dono dei più preziosi della vita.

Durante il mandato presidenziale ho sempre sentito vicino Giovanni Paolo. Ne avvertivo il sostegno: nella sollecitudine paterna del Pastore; nella guida illuminata della sua parola. Ogni fine d'anno, al termine del messaggio che il presidente della Repubblica rivolge agli italiani, tra le prime telefonate mi giungeva la sua. Ricordo, con emozione, il 31 dicembre 2002. Era appena terminato il collegamento televisivo, quando mi chiamò: «La ringrazio, ci ha commossi». L'indomani, all'Angelus, rinnovò pubblicamente il ringraziamento. Il filo del mio messaggio era stato il "buongoverno", che presuppone stabilità, rispetto delle istituzioni e delle regole, moralità nei comportamenti pubblici e privati, superamento delle «fazioni e delle consorterie per il maggior bene dell'Italia; affinché gli Italiani fossero di un solo volere»: questo affermavo, richiamando le parole di un sacerdote che all'indomani dell'Unità d'Italia rendeva onore ai martiri di Belfiore.

Auspicavo un'intensificazione del senso di solidarietà, dello spirito di condivisione. Il mio auspicio traeva forza dalle parole che il Papa aveva pronunciato poco tempo prima a Montecitorio. Aveva esortato l'Italia «per meglio esprimere le sue doti caratteristiche a incrementare la sua solidarietà e coesione interna».

La dedizione totale di Giovanni Paolo al bene di ogni singolo uomo e a quello della famiglia umana trova suggello nel suo prodigarsi senza risparmio per la pace. Il suo fisico già minato dalla malattia sembrava ritrovare l'antico vigore quando invocava la pace; quando levava il suo grido contro la guerra; contro l'insensatezza della guerra, dove si materializza il mysterium iniquitatis. Credo che resti incancellabile il ricordo dell'incontro di Assisi. Di certo, la memoria di quel giorno è scolpita in me, quando mi avvicinai al tripode per deporvi la lampada. Non senza emozione il capo dello Stato italiano faceva proprio l'invito, inusuale e inatteso, rivoltogli dal Santo Padre.

Quel gesto di deporre le lampade da parte dei rappresentanti di diverse confessioni religiose non era solo altamente simbolico e di grande suggestione; era pegno di una volontà tesa a superare, al di là di ogni difficoltà, gli "inciampi" che ostacolano il cammino dell'Uomo, che nonostante tutto, nella profondità dell'anima aspira al Bene. Quell'Uomo nel quale è dato osservare - sono parole del Papa - «l'eloquente convergenza tra i versi di Ovidio: Vedo il meglio e tuttavia mi rivolgo al peggio, e lo strazio di San Paolo: Sappiamo infatti che la legge è spirituale, ma io sono essere di carne... non faccio il bene che amo, ma faccio il male che odio».

Nello spirito di Assisi come in quello dell'incontro con i giovani a Tor Vergata c'è il sigillo di Giovanni Paolo, della sua intelligenza, che la mediazione del cuore arricchisce. E intelligenza e cuore, non categorie antinomiche, ma "virtù" complementari, erano spesso oggetto di conversazione attorno alla frugale tavola del Papa, dove mia moglie e io prendevamo la prima colazione, dopo la messa che egli celebrava - fino a che la salute glielo consentì - nella sua cappellina. Con noi partecipavano alla liturgia alcune suore e monsignor Stanislao. Mi è difficile trovare le parole per esprimere la ricchezza, la fecondità spirituale di quegli incontri, straordinari e semplici, insieme. Poi, quando non fu più in grado di celebrare, ci invitava per il pranzo. Il Papa dialogava quasi solo con cenni del capo, ma non ne soffriva l'intensità dello scambio tra noi. Leggo nella mia agenda: domenica 7 luglio 2003. In auto al Vaticano; Porta S. Anna. Ci dà il benvenuto monsignor Stanislao... Appartamento del Papa; viene Sua Santità e come sempre ci accoglie con un abbraccio. A tavola. Sua Santità parla poco; anche lo sguardo è con occhi semichiusi: ascolta con attenzione, interviene con brevi battute specie quando si toccano temi attinenti al "cuore" più che all'"intelletto"... quando gli dico di pensarlo spesso, la reazione è immediata: «Ed io l'ho qui», dice portandosi la destra sul cuore e accompagnando il gesto con uno sguardo che si fa penetrante.

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