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Questo articolo è stato pubblicato il 19 maggio 2011 alle ore 15:35.

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Andre Villas Boas (Reuters)Andre Villas Boas (Reuters)

Un altro mattone nel muro. Ieri sera il giovanissimo tecnico del Porto André Villas Boas ha portato al cielo l'ennesimo trofeo della sua breve ma intensa carriera. Troppo facile, si dirà, la sua squadra era nettamente superiore allo Sporting Braga, l'Europa League è stata poco più che una formalità, una piacevole passerella internazionale. Vero, ma gli indizi che parlano di un Villas Boas sempre pù protagonista della scena continentale cominciano a diventare tanti.

Ha 33 anni, da calciatore si è fatto notare soltanto nelle partitelle di fine settimana con gli amici, eppure piace ai presidenti di mezzo mondo perché con lui al comando le squadre giocano bene e vincono spesso. Dicono che sia l'emulo di sua maestà Mourinho per via di quel fare un po' sbruffone e di uno stile che fa la differenza, fuori e dentro il campo. Ma di allenatori che rispondono a queste caratteristiche ce ne sono diversi. Un nome su tutti, Pep Guardiola del Barcellona. E cosa dire di Leonardo. E di Mancini?

Mourinho è diventato grande alla guida del Porto, vincendo tutto quello che era possibile vincere. Si può dire che nella città portoghese pensino a lui come al nuovo segreto svelato di Fatima, una rivelazione, un satanasso in giacca e taccuino, un idolo delle folle, un istigatore della stampa. Che grazie al suo avvento ha cominciato a divertirsi e a raccogliere materiale utile per gli anni a venire. Mai banale, nemmeno sulle questioni più futili. D'accordo, ma anche Villas Boas ha iniziato a mettere da parte trofei con il Porto. Tuttavia, in confronto allo Special One si tratta di poca roba. Per carità, le premesse fanno ben sperare, ma la differenza in bacheca per ora si nota, eccome.

Altra analogia, a parte il fatto che sono entrambi portoghesi e che di questo passo i club europei spediranno nella terra di José Saramago un carico di studiosi per capire le origini del fenomeno. Entrambi hanno un trascorso con la palla ai piedi che viva la speranza, qui c'è posto per tutti. Un po' come Sacchi, che teorizzava il gioco del calcio senza averlo mai praticato davvero. E bene. Ai calzoncini hanno sempre preferito la lavagna, ai palleggi un buon libro sulla tattica e una pila di dvd sulle partite degli ultimi mesi. Del resto, è storia vecchia che si possa fare bene un mestiere come questo soltanto se si conoscono i limiti e i vizi di chi sta dall'altra parte. Lo dimostrano i fatti. Pare che Villas Boas abbia la passione per i videogiochi e che prepari le partite smanettando davanti ad un televisore. È il riscatto di una generazione di ometti che non vogliono perdere la pulsione per il gioco. Del resto, a 33 anni, fidanzata o moglie o pargoli consenzienti, tutto è lecito, o quasi. Grinta, determinazione, confronto e stima reciproca con i giocatori più rappresentativi, capacità di fare spogliatoio e di spremere quanto più è possibile il proprio organico. Ecco un'altra similitudine tra i due tecnici portoghesi.

Mourinho ha esaltato il mondo con un piglio da padre padrone e una carica esplosiva che nemmeno il miglior energetico. In campo, si sbraccia e prende nota. Gli basta uno sguardo per impartire ordini e dare le indicazioni alla sua squadra per invertire la marcia e riprendere l'assedio. Per quanto si è visto finora, Villas Boas sembra avere nel dna le stesse capacità di tenere in pugno i suoi uomini. Che corrono e scalciano dal primo all'ultimo minuto. E non accettano la sconfitta. Perché le sconfitte non fanno classifica e non danno prestigio. Quest'anno, il tecnico del Porto non ha perso una gara in campionato. E in Europa è stato un tritasassi fino alla finale vinta contro il Braga. Insomma, non poteva andare meglio, proprio no.

«Io non sono come lui. Per me il calcio non si basa soltanto sulla strategia e sulla tattica. E il tecnico non può da solo vincere le partite». Queste parole, pronunciate da Villas Boas qualche giorno fa a proposito dell'ormai consueta somiglianza con il collega Mourinho hanno creato scompiglio tra i giornalisti pronti a raccontare la nuova impresa del "nipotino" dello Special One. Ma come, siete davvero diversi? Quasi non ci credevano. Per mesi si è scritto e detto di tutto sui due portoghesi che fanno impazzire il calcio mondiale. Perché per raccontare il successo di uno era più facile fare riferimento all'altro, e viceversa. E invece, tutto da rifare. Villas Boas non vuole più essere paragonato al suo ex mentore, l'uomo che ha seguito come secondo al Chelsea e all'Inter, prima di scegliere di camminare con le proprie gambe.

Proprio così, ha ragione lui, Villas Boas è il regista di un calcio diverso da quello che mette in scena da anni l'illustre collega del Real Madrid. Due le ragioni principali. La prima: l'attuale allenatore del Porto non predica l'applicazione di schemi troppo rigidi. Il talento, quando c'è, va lasciato libero di esprimersi, costi quel che costi. Chi ha visto la partita ieri sera se ne sarà accorto. Probabilmente l'Inter non avrebbe mai giocato così sbarazzina, così slegata, e campioncini come Hulk, Falcao, Varela, Moutinho e Fernando difficilmente avrebbero trovato posto tutti assieme nella formazione titolare. Che va bene il bel gioco, ma quel che conta è il risultato. La seconda: mai sentito Villas Boas difendere i suoi dando addosso all'arbitro di turno, colpevole di aver danneggiato la partita con scelte quanto meno discutibili. L'allenatore del Porto che piace tanto anche alla Juventus alza difficilmente i toni dello scontro. Soprattutto, nei confronti dei rappresentanti in giacchetta nera, che invece Mourinho vede come i seguaci di una setta che vuole sovvertire l'ordine delle cose. Come dire, lo stile di entrambi si declina in modi e forme diverse. Più furbetto uno, meno viscerale l'altro. Anche se, alla fine, la diagnosi finale non cambia: signore e signori, ecco a voi i due tecnici portoghesi che stanno insegnando al mondo come giocare a calcio e vincere facile.

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