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Questo articolo è stato pubblicato il 11 giugno 2011 alle ore 09:34.
ROMA - Non c'è solo la cosiddetta privatizzazione dell'acqua, che privatizzazione non è, quanto piuttosto liberalizzazione delle modalità di gestione dell'erogazione, nel quesito stampato sulla scheda rossa che verrà consegnata a chi si recherà alle urne domenica e lunedì. Il dibattito e le discussioni di questi ultimi giorni pre-referendari tra i partiti del no e i partiti del sì si sono concentrate sulle risorse idriche ma l'articolo 23 bis regola anche il trasporto locale: una sua eventuale abrogazione riporterebbe indietro le lancette della concorrenza nell'affidamento dei servizi di autobus, tram e metropolitane al secolo scorso, a prima degli anni Duemila. Interrompendo un processo di apertura del mercato che, sia pur faticosamente e tra resistenze e continui colpi di coda legislativi e non, negli ultimi anni aveva cominciato a mettersi in moto. Se salta la legislazione attuale, di gare nel trasporto locale si riparlerà dopo il 2019 per i servizi su gomma e dopo il 2024 per i treni regionali, e l'in house - l'affidamento diretto di Comuni, Province e Regioni alle aziende di loro proprietà - tornerà a dilagare. Con il perpetuarsi di quei piccoli monopoli pubblici locali che tanti danni hanno prodotto nei conti delle aziende chiamate a gestirli.
Perché il settore tornerebbe dritto dritto al Regolamento europeo 1370/2007, decisamente meno pro-liberalizzazione dell'articolo 23-bis, in quanto frutto di un faticoso compromesso con i Paesi nuovi entrati della Comunità. L'articolo 61 della legge 99/2009 e l'articolo 4-bis della legge 102/2009, che di fatto hanno recepito in Italia le regole comunitarie, prevedono l'affidamento in house senza particolari limiti. Gli unici vincoli resterebbero la messa a gara del 10% dei servizi eserciti e l'impossibilità, per le imprese che ne usufruiscono, di poter partecipare ad appalti in territori diversi da quelli in cui operano.
Anche la «gara a doppio oggetto», l'assegnazione contestuale sia di una quota del capitale (solitamente oltre il 40%) della Spa pubblica che della gestione del servizio tramite procedura competitiva, strumento molto apprezzato dagli Enti locali, verrebbe azzerata.
Fino alla riforma Fitto-Ronchi, vigente la legge 422 del 1997 che prevedeva l'obbligo di gara, si era composta un'Italia a due velocità del trasporto locale: regioni che avevano completato il primo giro di gare e preparavano il secondo come Valle d'Aosta, Lombardia, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Emilia, Toscana, Marche e Umbria, regioni in mezzo al guado come Piemonte e Puglia (per i servizi urbani) e altre praticamente tutte in house come Veneto, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania e Calabria. Sicilia e Sardegna, avvalendosi di una norma ad hoc per le regioni a statuto speciale, si sono già «adeguate» al Regolamento Ue, rinviando tutto al 2019.
Se si considera che dal 2000 al 2010 per far girare bus, tram, metropolitane e treni dei pendolari il paese ha sborsato qualcosa come 70 miliardi di euro, investimenti esclusi, e che dai benchmark europei l'Italia esce con giudizi deludenti sia sui costi operativi (molto alti) delle aziende di trasporto locale che sulla qualità del servizio di bus e tram, cancellare la concorrenza non aiuterà certo a rientrare nei canoni di finanzia pubblica concordati con la Ue per i prossimi anni.
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