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Questo articolo è stato pubblicato il 04 luglio 2011 alle ore 17:33.

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JUBA - Il volto di John Garang, l'eroe della liberazione, le cifre di una lunga guerra, due milioni e mezzo di morti, lo slogan di un Paese che sta per nascere: The final walk to freedom, la marcia finale verso la libertà...

Un enorme cartellone, lungo una delle arterie principali di Juba, riassume passato, presente e futuro del Sud Sudan, che proclamerà la propria indipendenza sabato 9 luglio. «Benvenuti nel 54° Paese dell'Unione Africana», si legge poco distante, sull'unico ponte che attraversa il Nilo Bianco.

Ormai è fatta. Ben pochi ci credevano sino a qualche mesi fa. O, per lo meno, sino allo storico referendum che lo scorso 9 gennaio ha sancito con il 98,83 per cento di "sì" la secessione del Sud dal Nord. Un traguardo raggiunto dopo una guerra che si è trascinata, in due diverse fasi, dal 1955 al 1972 e dal 1983 al 2005.

Oggi Juba, la capitale improvvisata e forse provvisoria di un Paese tutto da costruire, vive un fermento e una concitazione che non aveva mai conosciuto. Cantieri ovunque, case, palazzi, alberghi in costruzione, nuove strade che vengono tracciate, vecchie che vengono asfaltate, un traffico come non si era mai visto in quella che sino a pochi anni fa era poco più che un grosso villaggio.

«Finalmente non più cittadini di serie B!», dice con convinzione Moses, che ha solo 19 anni ed ha appena finito la scuola superiore. È tra i pochi che hanno studiato, ma è costretto a lavorare come boda boda - deformazione dell'inglese border to border -, ovvero taxi-moto. Oggi, però, Moses sente che gli si aprono nuove prospettive di futuro. E come lui molti altri. È una sensazione condivisa: di fierezza, dignità e sempre più di euforia, man mano che si avvicina la fatidica data del 9 luglio, l'Indipendence Day!

Il ministro dell'Agricoltura, Anne Itto, una delle poche donne nel Governo centrale del Sud Sudan (Goss), cerca di essere più obiettiva, anche se non nasconde l'orgoglio di chi, ex militante del movimento di liberazione, ha combattuto in prima persona per arrivare a questo storico risultato.

Oggi ha un grande ufficio in uno dei ministeri meglio ristrutturati, mentre altri devono ancora arrangiarsi come possono nei container. «Con il referendum di gennaio - dice la ministra - i sud sudanesi hanno scelto di avere quella libertà che da lunghissimo tempo aspettavano. Vogliono avere un Paese tutto loro, dove poter allevare i figli con orgoglio, dove poter decidere del loro destino, del loro sistema economico e politico, dove poter essere fieri della propria cultura. Ma scegliere la libertà
significa anche assumersi delle responsabilità enormi». Lo sa bene lei, che dirige un ministero cruciale per il futuro del Paese, ma per molti versi impotente. Oggi in Sud Sudan viene coltivato solo l'1 per cento della terra. Praticamente tutti i prodotti agricoli vengono importati a prezzi esorbitanti. E intanto, compagnie straniere stanno mettendo le mani su vaste estensioni di terra. Secondo un rapporto di Norwegian Poople's Aid (Npa), presentato lo scorso marzo e dal titolo significativo, The New Frontier (La nuova frontiera), negli ultimi quattro anni, 28 compagnie straniere hanno cercato o acquisito un totale di 2.64 milioni di ettari di terra (pari all'estensione del Ruanda) solo per il settore agricolo, forestale e per i biocarburanti. Aggiunti agli investimenti locali, si arriva a 5,74 milioni di ettari, ovvero il 9 per cento della terra del Sud Sudan. All'insaputa del Ministero. «Non ci sono leggi, non ci sono regole - conferma a malincuore Anne Itto -. La terra appartiene tradizionalmente alle comunità, ma ora dovremo al più presto provvedere per stabilire norme più precise».

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