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Questo articolo è stato pubblicato il 04 luglio 2011 alle ore 17:33.

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È tutto così in Sud Sudan. Si ricomincia da zero. O peggio. Un'economia inesistente, il 90 per centro della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà, l'84 per cento di analfabeti, metà dei bambini malnutriti, il tasso di mortalità materna più alto al mondo. Si sono dovuti inventare, in questi pochi mesi, anche le cose più scontate: la bandiera, l'inno nazionale, il passaporto, una nuova moneta… Per non parlare di una nuova Costituzione, la cui elaborazione ha suscitato non pochi dibattiti e polemiche. E poi c'è tutto il resto da fare: strade, infrastrutture, i sistemi educativi e sanitari, qualsiasi attività produttiva ed economica. La guerra ha distrutto tutto, ma soprattutto non ha permesso di costruire niente. Neppure una leadership competente ed efficiente e dei quadri qualificati per i diversi settori. Al di là del petrolio - le cui entrate rappresentano il 98 per cento del budget dello Stato -, mancano le risorse economiche, ma mancano soprattutto le risorse umane. E per questo ci vorranno generazioni.

Il ministro della Sanità è uno dei pochissimi medici del Sud Sudan, che però ha deciso di consacrarsi alla politica. «Quella della formazione è una delle sfide più grandi e impegnative, in tutti gli ambiti», riconosce Luka Tombekana Monoja, che non nasconde di essersi ritrovato tra le mani uno dei settori più complessi e disastrati. È gentile, ma va di fretta. Deve andare a difendere il budget del suo ministero che sarà per forza di cose insufficiente a far fronte a tutte le necessità ed emergenze. «Dobbiamo creare competenze per poter costruire il
futuro di questo Paese. A cominciare dai sistemi scolastici di base. Ora ne abbiamo tre: uno arabo, uno inglese, uno straniero per i bambini rifugiati. Occorre uniformare i sistemi e offrire ai nostri ragazzi la possibilità di avere un'istruzione, perché abbiamo un enorme bisogno di persone competenti e formate per rilanciare la sfida dello sviluppo in un Paese dove c'è quasi tutto da fare».

Molto più caustico è Nihal Bol, fondatore e direttore dell'unico quotidiano del Sud Sudan, il Citizen, il solo che viene anche stampato nel Paese. «È una nazione tutta da costruire», dice senza mezzi termini Bol, che non si fa intimidire dalle minacce o dall'esser finito in prigione per articoli e inchieste "scomodi". «Non che non esista libertà di stampa - dice con una vena di umorismo - è che faticano ad accettare le critiche… In fondo sono quasi tutti ex militari!». Ed è questo, secondo il giornalista, uno dei nodi critici: «la governance che, insieme alle questioni di sicurezza, sono due punti deboli, debolissimi!».

In effetti, dopo la firma del'Accordo complessivo di pace del 9 gennaio 2005 a Nairobi, il Sud Sudan non è mai stato veramente in pace. Non solo perché il Nord continua a creare tensioni lungo alcune aree di confine (specialmente nello Stato dell'Abjei, ricco di petrolio) e a sostenere milizie di ex generali Sud sudanesi frustrati dalla spartizione del potere, ma anche perché, all'interno dello stesso Sud Sudan, scoppiano in continuazione conflitti tribali, spesso legati a razzie di vacche, che danno vita a una spirale infinita di vendette e taglieggiamenti. Per non parlare dello Stato del Western Equatoria, dove gruppi di ribelli ugandesi, appartenenti al Lord's Resistance Army (l'Esercito di liberazione del Signore, Lra, del famigerato Joseph Koni) destabilizzano una vasta regione di confine a cavallo tra Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo e Centrafrica. E così nel Western Equatoria, circa la metà della popolazione locale risulta sfollata dalle proprie case e dai propri campi. E in più deve accogliere migliaia di profughi fuggiti dal nord-est del Congo e dal Centrafrica. «Risultato - denuncia padre Mario Benedetti, missionario comboniano a sua volta fuggito dalla missione di Duru, in Congo, e che oggi vive in una capannuccia nel campo profughi di Makpandu - una delle regioni più fertili del Sud Sudan rischia di morire di fame. E che dire dei miei congolesi? Non possono tornare a casa e qui non hanno alcuna prospettiva di futuro. Perché nessuno fa niente?».
Eppure la comunità internazionale è presente con un'imponente missione Onu, e sempre più organizzazioni umanitarie aprono nuovi progetti nel Paese. Ma non solo: Governi e imprese straniere cominciano a riversarsi in Sud Sudan, con l'avidità di chi ci vede enormi potenzialità di business. Il rischio è che tutto ciò avvenga, ancora una volta, sulla pelle della gente.
Forse The final walk to freedom non è ancora terminata. Il 9 luglio nasce la Repubblica del Sud Sudan. Un nuovo Paese. Un nuovo inizio.

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