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Questo articolo è stato pubblicato il 09 agosto 2011 alle ore 13:08.

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(Afp)(Afp)

A quindici mesi dalle elezioni presidenziali americane del 6 novembre 2012, i numeri sono inesorabili, i precedenti negativi, i sondaggi pessimi, il debito pubblico declassato. La disoccupazione è al 9,1% e non dà segni solidi di ripresa. Un rapporto Goldman Sachs prevede che al momento del voto sarà dell'8,75 per cento. Dal Dopoguerra a oggi, i presidenti degli Stati Uniti sono stati rieletti soltanto quando il tasso di disoccupazione è rimasto sotto il 6% (solo Ronald Reagan, nel 1984, è riuscito a rimanere alla Casa Bianca con la disoccupazione al 7,2%, ma il tasso era in forte discesa).

Secondo Gallup, il gradimento di Obama è al 41%, così basso che oggi perderebbe con 8 punti di distacco contro un generico candidato repubblicano. La buona notizia per Obama è che Mr. Generico Repubblicano non esiste, al contrario dei candidati repubblicani in carne e ossa. Quando i sondaggi affiancano al presidente democratico i veri sfidanti conservatori, quelli che in questi giorni si preparano alle primarie di partito che inizieranno a gennaio, per Obama la rielezione sembra diventare una passeggiata. Solo l'ex governatore del Massachusetts Mitt Romney sembra poter infastidire il presidente, ma i primi a non essere convinti del candidato mormone sono proprio i repubblicani, in perenne attesa di un nuovo messia che possa riscattarli.

Oggi solo il 58% della forza lavoro americana ha un impiego, l'economia cresce meno del 2 per cento, il valore delle case è diminuito di un terzo rispetto a cinque anni fa, la Borsa ieri è arrivata a perdere il 6,66% e la paura di una nuova recessione cresce di giorno in giorno. Il downgrade sui buoni del Tesoro americani di Standard & Poor's ha colpito innanzitutto la Casa Bianca, avviando la gara tra destra e sinistra sulle responsabilità politiche della retrocessione. Obama ora evita la retorica del peggio è passato, non si avventura in previsioni ottimistiche sui posti di lavoro, si limita a far passare il messaggio difensivo di aver evitato la catastrofe. I suoi strateghi provano a ricordare che la colpa è del predecessore George W. Bush, spiegano che gli oppositori sono inaffidabili, avvertono che le ricette estremiste dei Tea Party porterebbero alla rovina.

È una partita di narrazioni contrapposte, quella da qui al voto del 2012: se è vero che Obama ha ereditato una crisi finanziaria, è anche possibile sostenere che «he made it worse», che le sue scelte hanno peggiorato la situazione, specie ora che c'è anche il bollino di Standard & Poor's, come fanno notare implacabili i conservatori. Le politiche economiche interventiste, peraltro avviate da Bush, nate per sostenere l'economia e l'occupazione, non hanno fatto crescere i posti di lavoro, ma soltanto il debito. Ma l'elemento più pericoloso per Obama è quello individuato da Virginia Postrel su Bloomberg View: Obama non è carismatico, è solo glamour. Con il carisma, un leader riesce a convincere il pubblico ad abbracciare la propria visione; con il glamour, invece, è il pubblico a proiettare i propri desideri su un leader. Può essere, questa, una spiegazione del disamoramento collettivo nei confronti di un presidente straordinariamente osannato fino a pochi mesi fa.

I fondamentali della politica dicono che è spacciato, ma non va dimenticato che Obama resta una formidabile macchina da soldi. In politica, diceva alla fine dell'Ottocento Mark Hanna, lo stratega del presidente repubblicano William McKinley, ci sono solo due cose importanti: «La prima sono i soldi e non mi ricordo quale sia la seconda». Ma c'è anche il peculiare sistema elettorale americano a preoccupare ulteriormente gli strateghi di Obama: tolti gli stati tradizionalmente democratici e quelli che votano immancabilmente per il candidato repubblicano, restano solo dieci o undici swing states a determinare il prossimo presidente degli Stati Uniti. I recenti sondaggi in Florida e Ohio, stati perennemente indecisi e in bilico, tartassati dalla crisi e fondamentali per ottenere la maggioranza nel Collegio elettorale, mostrano Obama in affanno e con qualche difficoltà a ripetere il risultato trionfale di due anni e mezzo fa, anche se qualche speranza è riposta nella cattiva performance dei nuovi governatori repubblicani.

Una strada per la vittoria repubblicana c'è, quindi. A patto che il Grand Old Party non sbagli candidato, altrimenti si prospetta un esito negativo molto simile a quello del Nevada nel 2010, quando il senatore democratico Harry Reid era rassegnato alla sconfitta, salvo poi recuperare grazie all'inadeguatezza della sua avversaria, Sharron Angle, amata dai Tea Party per i suoi slogan anticasta, ma palesemente non all'altezza del compito. Gli aspiranti sfidanti di Obama sono di due tipi. Ci sono i poco carismatici, come Tim Pawlenty e Jon Huntsman, e quelli troppo identificabili con il movimento antistatalista, come Michelle Bachmann, Newt Gingrich, Rick Santorum, Ron Paul. I primi non piacciono ai militanti della Right Nation, in particolare Huntsman che ha fatto pure l'ambasciatore di Obama a Pechino, e hanno poche chance alle primarie di partito. Gli altri possono contare su una grande mobilitazione popolare, ma il marchio dei Tea Party alle elezioni generali è radioattivo. In mezzo c'è Mitt Romney, il candidato dell'establishment, quello più conosciuto e con i soldi, ma notoriamente incapace di generare entusiasmo. L'attesa per il nuovo messia repubblicano resta. A giorni potrebbe annunciare la candidatura il governatore del Texas Rick Perry, probabilmente l'unico in grado di accontentare i boss del partito, la destra religiosa e i libertari. Perry può vantare nel suo curriculum il boom economico del Texas, in controtendenza con il resto del Paese, ma deve scontare la diffidenza di gran parte dell'America nei confronti di un altro governatore del Texas, peraltro con un passato prima da vice e poi da successore di Bush nel palazzo di governo ad Austin.

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