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Questo articolo è stato pubblicato il 24 agosto 2011 alle ore 11:00.
L'ultima modifica è del 24 agosto 2011 alle ore 08:12.

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Gheddafi ai suoi fedelissimi: lotta fino alla morte. Nella foto i festeggiamenti dei ribelli nelle piazze (Epa)Gheddafi ai suoi fedelissimi: lotta fino alla morte. Nella foto i festeggiamenti dei ribelli nelle piazze (Epa)

Dal nostro inviato Roberto Bongiorni
TRIPOLI. A Bab al-Aziziya, il cuore del potere di Gheddafi, sventola la bandiera dei rivoltosi. Tutto l'enorme quartiere bunker di Tripoli sarebbe stato espugnato. Com'era accaduto a Baghdad nell'aprile del 2003, la statua di Gheddafi viene deposta e decapitata, anche se sul compound piovono ancora i tiri di mortaio delle forze lealiste. A ogni checkpoint i ribelli sparano in aria. «È finita», urlano. Ma in una guerra di propaganda, dove i due belligeranti esaltano i successi e nascondono le sconfitte - l'ultimo clamoroso caso è stata la notizia lunedì dell'arresto di Seif al-Islam, il figlio del raìs, apparso poi nella notte ai giornalisti - è difficile sapere con esattezza il reale andamento del conflitto. Anche le notizie delle nuove avanzate sono da prendere con il beneficio del dubbio: l'ambasciatore dei ribelli all'Onu, Ibrahim Dabbashi, ha dichiarato che il compound è completamente in mano agli insorti e che nel giro di 72 ore l'intero Paese sarà liberato. Ma ancora a tarda sera alcuni testimoni riferivano di combattimenti nel compound, mentre l'Hotel Rixos, che ospita diversi giornalisti stranieri, rimane sotto il controllo delle truppe lealiste.

Tra i ribelli comunque il clima è di euforia. La differenza la si nota subito al confine, dall'espressione sui volti dei due popoli. Di qua, in Tunisia, gli abitanti delle regioni meridionali sembrano disincantati, quasi volessero trasmettere la loro delusione per quella che alla fine, come molti di loro sostengono, è stata solo una rivolta a metà, anche se ripetono, con orgoglio, che loro sono stati i primi a scendere in piazza contro il loro dittatore, deponendolo. Ancora alcune centinaia di chilometri in mezzo al deserto e si arriva al valico di frontiera di Dhibat, insolitamente affollato per essere un luogo in mezzo al nulla, a 200 km dalla costa. Moltissimi libici carichi di merci sotto un sole rovente. Vogliono tornare tutti nella Nuova Libia. Sui loro volti espressioni di giubilo, Libya Hurra, "Libia libera", cantano, mostrando le nuova bandiera, quella dei tempi di Re Idris, il monarca rovesciato da Gheddafi nel 1969. È mezzogiorno; i ribelli stanno combattendo nel bunker fortificato di Bab al-Aziziya. La gente esulta. Anche se del raìs, così come dei suoi figli, non c'è traccia. «È finita urlano. Il regime è crollato».

Non del tutto. Dhibat è l'unica frontiera aperta. Ras Gdeer, il più agevole valico sulla costa è stato chiuso dall'esercito tunisino, i gheddafiani lo controllano ancora. E nelle zone circostanti mercenari disperati fuggono braccati dai ribelli, sparando su ogni oggetto in movimento. Così come in altre isolate zone della Libia. Rispetto a sei mesi fa, quando dall'Egitto si entrava senza essere fermati nella Cirenaica liberata, ora i ribelli hanno allestito un rudimentale gabbiotto, dove controllano attentamente, annotando il nome del possessore. Come se volessero dare l'impressione che la disciplina inizia anche da qui, che saranno davvero in grado di mantenere la sicurezza e ricostruire il Paese. «Vi assicuro al 100% che non ci saranno disordini e rese dei conti. Siamo stanchi delle armi e della violenza», precisa nel suo inglese fluente Abdurahamn Farjani, 36 anni, il responsabile dei comitati che ci accompagna fino a Tripoli. Eppure quando si attraversano i checkpoint i supposti comandanti elogiano i meriti del loro clan e dei loro guerriglieri, quelli più coraggiosi, quelli che ora devono ottenere qualcosa in cambio per il loro sacrificio

L'auto attraversa le brulle montagne di Nafusda. È il percorso più lungo, ma sull'altra via le milizie di Gheddafi sparano razzi Grad sul litorale nei pressi delle città di Zwara e Gmail. Si combatte ancora un po' dappertutto. Tra la Cirenaica e la regione di Sirte, luogo di origine e roccaforte del raìs. Ma soprattutto si combatte a Tripoli. Nei posti di blocco i ribelli esultano per la conquista di Brega e Ras Lanuf, i due terminal petroliferi più importanti. Ora marcerebbero verso la Sirte, dove si sarebbero dirette in ritirata le forze del raìs. Conquiste che il regime smentisce, ma non in tono troppo convincente.

Gheddafi non è stato catturato. Ma ora i ribelli controllano tutti i terminal petroliferi del Paese che vanta le maggiori riserve d'Africa, 42 miliardi di barili. Eppure finché non sarà preso Gheddafi, le sacche di resistenza potrebbero destabilizzare l'ex regno del raìs paralizzandone lo sviluppo. «È prematuro dire che la guerra a Tripoli è finita», ha detto il presidente del Consiglio transitorio, Mustafa Abdel Jalil.

La guerra delle ultime settimane è stata violenta e intensa. I bossoli degli obici orlano la strada che conduce a Zintan. Decine di carri armati delle forze di Gheddafi sono abbandonati sulle piane desertiche. Vicino affiorano le fosse scavate dalle bombe dei caccia della Nato. A conferma di come, senza il sostegno dell'Alleanza, i ribelli non sarebbero arrivati sino qui. Il viaggio continua villaggio dopo villaggio, la gente è incredula. «42 anni! - ripete Abdulrahman – Io sono nato con Gheddafi, ho studiato con Gheddafi. Sono laureato e non ho so nemmeno cosa sia un'elezione democratica. Non ne ho mai viste!». Nei dintorni della capitale regna la tranquillità. Non si festeggia come si penserebbe, la gente non sa ancora cosa credere, a chi credere. A sera i sobborghi della capitale sono avvolti nel buio. Ma qualche sporadico colpo di arma da fuoco si ode in lontananza.

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