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Questo articolo è stato pubblicato il 23 agosto 2011 alle ore 22:50.

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Il premier David Cameron, ha fin dal principio parlato di un «largo sostegno della comunità internazionale» al processo di stabilizzazione della Libia. Il premier britannico che cerca spazio per la BP e la Shell (anglo-olandese) in Libia soprattutto a livello di nuove esplorazioni aveva però suggerito un ruolo di «coordinamento» per le Nazioni Unite. In questo senso proprio i caschi blu, se un intervento di peacekeeping dovesse rendersi necessario, potrebbero essere lo strumento per sanare ogni discordia sul tavolo.

L'ITALIA. Il ministro della Difesa italiana Ignazio La Russa ha dichiarato che, se da un lato «non esiste la probabilità che truppe Nato e quelle italiane entrino a far parte del conflitto», dall'altro «non si può escludere la presenza di truppe Onu, purché‚ siano truppe arabe o africane e non dei paesi europei».

Che tra Londra e Bengasi esista, un legame molto stretto è però inconfutabile. La RAF ha spianato la via ai ribelli con bombardamenti mirati fin dalle prime luci di sabato mattina.

A queste ultime, fondamentali missioni aeree non ha partecipato invece l'Italia, come riferito oggi da La Russa: negli ultimi giorni, ha detto infatti il ministro, «i bombardamenti in Libia non hanno visto la partecipazione dell'Italia perché‚ non c'era bisogno, non perché‚ non volevamo farlo».
Resta il fatto che la corsa a Tripoli è in agenda nelle cancellerie occidentali e qualcuno è pronto a madare truppe di terra.

LE COMPAGNIE PETROLIFERE. Sul fronte italiano, Eni, per la quale Tripoli rappresenta il 13% del fatturato, sarebbe pronta a riprendere le proprie attività nel petrolio e nel gas. I vertici del Cane a Sei zampre avrebbero inoltre già preso da tempo contatti con i membri del Consiglio transitorio di Bengasi. Ieri comunque il presidente del gruppo Giuseppe Recchi si è espresso con cautela sui tempi: «Ci sono ancora tensioni, la Libia è ancora considerata in guerra» ha detto intervenendo al Meeting di Rimini.

Oltreoceano, la compagnia Marathon Oil di Huston ha fatto sapere di avere avuto «discussioni preliminari» con i rivoltosi sulle condizioni delle proprie infrastrutture, con l'obiettivo di sviluppare un piano per la ripresa della produzione. Ma nessuna indicazioni sui tempi. «Speculare sulla data del nostro ritorno è prematuro», ha detto il portavoce del gruppo John Porretto.

Pronta a ritornare a Tripoli anche la British Petroleum «non appena le condizioni lo permetteranno». Prudenza sulle date di un'eventuale ripresa della produzione in Libia anche da Royal Dutch Shell, Total e Repsol, già attive in Libia.

Con la più vaste riserve accertate di tutta l'Africa e un ruolo di peso nel mercato delle esportazioni di greggio mondiali, la Libia e le potenzialità del suo mercato energetico fanno gola alle compagnie petrolifere internazionali, tuttavia non è ancora chiaro come la nuova classe al potere intenda sviluppare il settore. Le «potenzialità del paese sono al rialzo», osserva Lawrence Eagles analista di Jp Morgan Chase, secondo quanto riporta il Wall Street Journal. Ma, avverte, «stiamo ancora ancora parlando di una situazione in cui nessuno può dire con certezza cosa farà il nuovo governo. «Di fatto ci troviamo davanti un foglio bianco», sottolinea.

Di certo i danni provocati dalla guerra alle infrastrutture sono tutti da quantificare. Qualche analista ha paragonato la situazione all'Iraq, in cui ci sono voluti 4 anni per superare i livelli di produzione pre-conflitto del 2003.

Non si sbilancia sui tempi neanche l'Opec, il cartello dei paesi produttori di greggio di cui fa parte la stessa Libia. «La situazione sul posto è ancora molto confusa - afferma un delegato dell'organizzazione - al momento stiamo a guardare».

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