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Questo articolo è stato pubblicato il 04 ottobre 2011 alle ore 15:23.

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Buenos Aires - Non sono più i viaggi della speranza, quelli in cui i governi dei Paesi emergenti chiedevano al Fondo monetario e ad altre istituzioni sovranazionali aiuti per superare lunghe congiunture ostili.

Il paradigma si è rovesciato
Il presidente brasiliano Dilma Rousseff, in missione in Europa, ha dispensato consigli ai Paesi attanagliati dalla crisi: «Attenzione, le misure troppo restrittive rischiano di provocare un avvitamento, un aggravamento della crisi».

Con queste parole Rousseff ha parlato dell'esperienza brasiliana, si è riferita alle politiche di bilancio che il Brasile ha varato negli anni Ottanta, quelle che hanno provocato gravi danni macroeconomici. Poi ha aggiunto che «è difficile uscire dalla crisi senza aumentare i consumi e sostenere la crescita del Pil». Il Brasile con la sua esplosione di vitalità economica si è imposto come player globale e l'establishment di Brasilia non fa mistero dell'intenzione di riplasmare la nuova identità politica del Paese. Un alto funzionario di Planalto, sede del Governo, che chiede di non esser citato, spiega al Sole-24Ore, che «il Brasile non è più solo un leader regionale ma negozia, su tavoli separati, con Stati Uniti, Cina, Unione europea . E ciò accade senza alcuna sudditanza psicologica».

E' talmente forte, e soprattutto consapevole della sua forza, da voler allentare i rapporti con gli altri Brics, (l'acronimo indica il gruppo di Paesi ex emergenti costituito da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Questo è un fatto recente ed è difficile non attribuire all'ex presidente Lula il merito di questo upgrading di politica ed economia internazionale: entrare nel salotto buono della finanza e della politica mondiale ed essere ascoltati con attenzione. Inutile dire che alla base di questo scatto d'orgoglio vi sia una notevole forza economica; il Pil corre (7,5% nel 2010) anche se quest'anno è previsto un rallentamento e si assesterà al 4 per cento.

«E' una congiunzione astrale ultrafavorevole – ride Silvio Sales, economista della Fondazione Getulio Vargas, la più prestigiosa del Paese – e ora siamo il Paese dell'oggi, non più il Paese del futuro».

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