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Questo articolo è stato pubblicato il 30 ottobre 2011 alle ore 13:51.
L'ultima modifica è del 30 ottobre 2011 alle ore 08:10.

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Lo raggiunge con una sorta di illuminazione interiore che unisce insieme l'indicazione del bene e del bello e risveglia in lui le energie della mente e del cuore rendendolo atto a concepire l'idea e a darle forma nell'opera d'arte» (n. 15). La bellezza - pur in tutta la sua fragilità - è come una soglia fra la terra e il cielo, dove l'una "trasgredisce" continuamente verso l'altro e l'eterno si affaccia nella storia degli uomini. Perciò, la bellezza ha legami di forte analogia col Cristo, «il più bello dei figli degli uomini» (Sal 45,3), «il bel Pastore» (Gv 10,11).

Furono considerazioni come queste che ispirarono l'affermazione del Concilio Costantinopolitano IV (870), di cui difficilmente si potrebbe esagerare l'importanza per la storia dell'arte: «Quanto il discorso dice in sillabe, la grafia dei colori lo annuncia e lo rende presente». Senza questo pronunciamento - che sanciva definitivamente la condanna dell'iconoclasmo - non avremmo avuto Giotto né Raffaello né Michelangelo, e neppure Rublev, Rembrandt o Velasquez: ribadendo la condanna del rifiuto delle immagini sacre in nome della corrispondenza fra il Logos in parole e il Logos nella carne, fra la Parola detta e la Parola vista, quelle espressioni sosterranno la Chiesa, custode del Verbo udibile, nel farsi promotrice del Verbo visibile, tanto nei gesti della carità, quanto nelle opere della bellezza.

Il congiungimento a prima vista paradossale fra il «sillabare del logos» e la «grafia dei colori», sancito in quel pronunciamento, produrrà frutti straordinari: e se in Occidente il messaggio sarà veicolato dall'artista nella potenza della luce e delle forme da lui stesso creativamente prodotte, in Oriente l'iconografo sarà colui che significativamente "scriverà" l'icona, servendosi di linee e di colori canonici.
È nel solco di queste tradizioni che si pone il dono fatto dal cardinale Tettamanzi alla Chiesa di Milano. Gli artisti convocati a illustrare l'evangeliario sono voci significative del contemporaneo: da Mimmo Paladino a Nicola De Maria, affermatisi a partire dagli anni Settanta nell'ambito della cosiddetta "Transavanguardia", da Ettore Spalletti, che attraverso la delicatezza e la peculiarità del pigmento tende a creare spazi di pura luce, ai giovani Nicola Samorì e Nicola Villa, fino al fotografo Giovanni Chiaramonte.

Ognuno di essi si è cimentato con la sfida di esprimere qualcosa dell'infinitamente bello, quasi un'ombra di Dio. Ci si deve chiedere come si sia compiuta questa trasfigurazione della parola evangelica in forma di bellezza: nell'icona - non a caso sorgente ispirativa di molta arte "astratta" - la linea delimita lo spazio e circoscrive una forma, come fa la lettera dell'alfabeto; nelle figure del nuovo Evangeliario ambrosiano la linea dà forma allo spazio, lo in-scrive, mentre il colore dà luminosità alla forma, facendovi emergere dalla tenebra indefinita lo splendore della luce. Si determina così un gioco di spogliamento e di irradiazione, di "kènosi" e di "splendore": la linea definisce la separazione, il colore manifesta l'unità fra il Tutto e il frammento; grazie alla loro combinazione, il Tutto si offre nei frammenti e questi ospitano il Tutto, evocandolo. Il risultato è un evento di bellezza, "kènosi" dello "splendore" e "splendore" della "kènosi".

La misura della non confusione - nell'irrinunciabile non separatezza - di questi due movimenti è la misura dell'arte: e questa misura può dirsi raggiunta dove risulta palese non tanto che non c'è più nulla da aggiungere, quanto che non c'è più nulla da togliere. L'arte si muove in questo singolare esperimento sul confine della "trasgressione simbolica", dell'evocazione che tiene insieme le lontananze, non su quello della rappresentazione realistica. Ecco perché essa ha una peculiare vicinanza a quel discorso in parole, che tenta di dire l'indicibile senza violarlo e tuttavia veramente evocandolo, che è la parola della fede. Come afferma lo stesso ispiratore e committente dell'opera, il cardinale Tettamanzi, proprio così l'evangeliario ambrosiano potrà servire la causa della fede promuovendo quella della bellezza: «L'Evangeliario è il libro liturgico più solenne.

Durante i secoli ne sono stati realizzati diversi esemplari, alcuni dei quali sono da annoverare tra le opere più straordinarie dell'arte di tutti i tempi. Nel solco di questa gloriosa tradizione, ho voluto compiere non solo un atto simbolicamente espressivo dell'unica missione della Chiesa - quella di annunciare oggi il Vangelo - ma anche una ambiziosa operazione culturale, capace di interessare il mondo dell'arte, della cultura e della politica in senso alto: il libro dei Vangeli custodisce infatti i valori fondanti e l'identità più preziosa della nostra società occidentale». Quei valori di cui abbiamo tanto bisogno per uscire dalla crisi che ci riguarda tutti.
Bruno Forte Arcivescovo di Chieti-Vasto

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