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Questo articolo è stato pubblicato il 09 novembre 2011 alle ore 08:09.

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Silvio BerlusconiSilvio Berlusconi

di Barbara Fiammeri
La smorfia con cui Silvio Berlusconi accoglie il verdetto dell'aula rappresenta in modo eloquente il mix di rabbia e delusione che attraversa il premier. Il Cavaliere è attonito. Sapeva che la maggioranza assoluta, guadagnata solo 20 giorni fa, era oramai un miraggio ma di fronte a quel «favorevoli 308» scandito da Gianfranco Fini sembra incredulo. Berlusconi serra la mascella, stringe le solite mani che gli si parano davanti e guadagna rapidamente l'uscita per dirigersi a Palazzo Chigi dove, dopo un vertice con Bossi, avviserà il Quirinale della sua visita.
Il colloquio con Napolitano il Cavaliere lo ha preparato mentre alla Camera fingeva di non ascoltare l'intervento del leader del Pd Pierluigi Bersani. Il premier prende appunti. Su un foglietto inquadrato dalle telecamere scrive «dimissioni» e «presidente della Repubblica». Il dado è tratto. Ma la partita è appena cominciata.

Berlusconi non ha alcuna intenzione di ripresentarsi in aula e farsi sfiduciare come Napolitano inizialmente gli propone. Il Cavaliere vuole tenere – come si dice in questi casi – il boccino in mano, prendere tempo. Bossi aveva aperto in mattinata le danze con la richiesta di un «passo laterale». Ed è quello che fa Berlusconi quando al tavolo apparecchiato al Colle mette la «disponibilità» a rassegnare le sue dimissioni, ma solo dopo l'approvazione della legge di stabilità: fino ad allora sarà lui a restare in carica. Il Quirinale concorda, a patto che i tempi siano celeri. Si parla di una decina di giorni.

Il Cavaliere convoca immediatamente un altro vertice, questa volta a Palazzo Grazioli, ma prima registra due interviste al Tg1 e al Tg5 per dettare la linea. E le parole che pronuncia sono chiarissime. Berlusconi ritiene che dopo di lui l'unica prospettiva siano le «elezioni». Il premier ovviamente dice che a decidere dovrà essere il Capo dello Stato ma l'input che lancia è che mai e poi mai il Pdl sarà disponibile a un governo di larghe intese. Una contrarietà che il Quirinale – riferiscono gli uomini vicini al premier – non può ignorare anche perchè la Lega è sulla stessa linea. «Napolitano non farà ribaltoni», è convinto Berlusconi, che lascia intravedere come unica alternativa al voto un governo guidato da Angelino Alfano, magari tentando di allargare la maggioranza all'Udc. Una strada impraticabile, Casini glielo ha già detto. Ma Berlusconi la proverà lo stesso, magari solo per avere il tempo di ad incollare i cocci della maggioranza andata ieri in frantumi e, male che vada, per incoronare Alfano come futuro candidato premier.

Molto dipenderà dalla reazione dei parlamentari alla paura del voto anticipato. Ieri sera, sia i deputati legati a Scajola che quelli vicini all'ex responsabile Luciano Sardelli e agli ex Pdl Destro e Gava si sono riuniti per verificare se ci siano le condizioni per formare autonomi gruppi parlamentari. L'obiettivo è evitare le urne e agevolare la strada a un governo con una maggioranza ampia, anche di unità nazionale che completi la legislatura attuando gli impegni assunti con l'Europa. Nel Pdl, anche al Senato, si teme lo smottamento e non pochi sono coloro che sarebbero favorevoli anche a un governo tecnico guidato da Mario Monti e con un vicepremier di «garanzia» quale, ad esempio, Gianni Letta. Ma è un'ipotesi che sancirebbe la fine dell'alleanza con il Carroccio, che, sommata al ritorno al Mattarellum per il referendum sulla legge elettorale, rischierebbe di mettere in pericolo la conquista per il Pdl dei collegi al Nord.

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