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Questo articolo è stato pubblicato il 24 dicembre 2011 alle ore 09:45.
L'ultima modifica è del 24 dicembre 2011 alle ore 08:10.

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«Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio». È impressionante l'attualità di queste parole del profeta Michea (6,8), che ci giungono dall'ottavo secolo prima di Cristo. Il contesto è quello di un grave momento di crisi: insicurezza all'esterno, difficoltà e prove all'interno del popolo eletto.

Il Profeta immagina un processo nel quale l'Eterno chiama a giudizio coloro coi quali aveva stabilito la sua alleanza d'amore e che ad essa non erano stati fedeli. La loro risposta è un'ostentazione di giustifiche e rassicurazioni, simili alle tante che uomini di ieri e di oggi hanno saputo trovare per non misurarsi con la verità. Ed ecco che il Profeta si fa voce dell'Altissimo per pronunciare quelle parole scarne, essenziali, che contengono un vero e proprio programma di vita personale e collettiva: parole così decisive che una delle voci più alte della coscienza religiosa del Novecento, Franz Rosenzweig, non ne trovò di migliori per chiudere la sua opera fondamentale, La stella della redenzione, scritta nel tempo drammatico seguito alla prima guerra mondiale, mentre già si andavano profilando gli scenari dell'imminente barbarie totalitaria.

«Praticare la giustizia ed essere buoni nel cuore: questo appare ancora come una meta... Camminare in semplicità con il tuo Dio, questo non è più un obiettivo, questo è così assoluto, così libero da ogni condizione, così direttamente partecipe della verità eterna quanto lo sono la vita e la via». In un tempo in cui il nostro Paese prova a uscire dalla seduzione di rassicurazioni illusorie e ad aprire gli occhi davanti alla crisi in cui ci troviamo, le parole del profeta Michea possono essere una guida per i giorni che verranno, illuminati - per chi crede - dalla speranza luminosa del Natale.

«Praticare la giustizia»: è il primo impegno che Michea indica per vivere a testa alta il tempo della crisi e superarne gli effetti, a costo certamente di sacrifici e di scelte esigenti. Pratica la giustizia chi accetta la fondamentale uguaglianza di tutti gli esseri umani sul piano della dignità personale e dei diritti fondamentali ed è pronto a riconoscere e dare a ciascuno il suo.
Tradotto nei termini di quanto oggi ci viene chiesto, ciò vuol dire che chi ha di più deve dare di più e chi è più debole va maggiormente sostenuto. «Equità» è il termine con cui quest'esigenza è stata espressa più volte e da più parti in queste settimane difficili, sia per proporne il valore di meta, sia per denunciarne l'inadeguata realizzazione.

Che quanto è stato fatto sia solo un inizio e non risponda in pieno all'esigenza della giustizia non sfugge a nessuno, tanto meno a chi nelle decisioni ha dovuto navigare fra le Scilla e Cariddi delle opposte richieste. Che la meta però vada continuamente tenuta presente e a essa si cerchi di conformare di più e meglio la rotta comune sul mare in tempesta, è richiesta radicata in una fondamentale esigenza etica: dove non ci sarà giustizia, non ci sarà neanche pace sociale e sviluppo sostenibile per tutti. Senza cedere a fin troppo facili recriminazioni di parte, la meta indicata dalle parole del profeta Michea deve agire come un pungolo continuamente presente, spingendo di volta in volta a correttivi e aggiustamenti che consentano a chi sta meglio e ha di più di contribuire maggiormente e di buon grado al salvataggio della barca comune. In altri Paesi ciò è avvenuto e c'è da auspicarsi che possa avvenire anche in Italia, man mano che maturerà la coscienza della gravità della crisi e il senso del dovere di ciascuno nel farsi protagonista del suo superamento.

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