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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2012 alle ore 17:54.

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La prima bancarotta del debito sovrano della storia avvenne nel 4° secolo aC, ad opera di 10 città-stato greche. C'era un solo creditore a quei tempi a incassare la perdita: il tempio di Delo, mitico luogo di nascita del dio Apollo. Ventiquattro secoli dopo, la Grecia è ancora sull'orlo del più grande default sovrano dell'epoca moderna che fa tremare tutti i responsabili politici mondiali per le onde d'urto e il contagio che possono derivare da un fallimento di un debito da 360 miliardi di euro di debito, cinque volte più grande di quello dell'Argentina che fu di appena 95 miliardi di dollari di default nel 2001.

In più oggi ci sono i Cds, i credit default swap, cioè le assicurazioni sulle perdite che a loro volta, in caso di default "disordinato", farebbero andare a picco le assicurazioni e le banche, quasi tutte americane, titolari dei contratti (di cui nessuno conosce l'entità) sui 276 miliardi di bond greci emessi da Atene, 200 dei quali sono nelle mani dei creditori privati e investitori istituzionali. Creditori che secondo l'IIF di Charles Dallara sono già pronti a prendersi perdite nominali di 100 miliardi di euro con un haircut del 50%, e di perdite effettive finali dopo lo scambio del 70% del capitale investito.

Ecco perché Atene non è un problema locale di poco conto o di soli conti truccati da una classe politica particolarmente incapace o avida: la Grecia è il coacervo di tutte le contraddizioni di un sistema finanziario globale senza regole, di un decennio di credito facile e tassi di interesse in calo, di un sistema politico locale indubbiamente clientelare e di un'architettura europea insufficiente perché priva di una qualsivoglia soglia di fiscalità comune o eurobond a livello federale.

Ecco su cosa deve pronunciarsi oggi il Parlamento greco: i 300 deputati dell'assemblea unica (ancora un volta torna il numero 300 come gli eroi di Leonida) devono cioè decidere se approvare le misure di austerity di appena 3,3 miliardi di minori spese chieste dalla troika composta da Ue, Fmi e Bce, a fronte di altri 145 miliardi di euro di nuovi prestiti concessi da Ue-Fmi. Da una parte c'è l'euro, dall'altra il ritorno alla dracma. Da una parte la faticosa razionalità del rigore della crescita sostenibile e dei conti in pareggio, dall'altra la svalutazione associata alla deflazione e in altre parole il richio caos, parola non a caso inventata come la filosofia e il pensiero scientifico, proprio dai greci antichi.

Se Atene dovesse dire no al piano di austerità si finirebbe nel ritorno alla dracma, alla svalutazione competitiva, al modello argentino che si sganciò dalla impossibile parità con il dollaro per recuperare la competitività perduta; se i 300 deputati diranno sì al piano di austerità invece verrà tenuta aperta la possibilità di ricevere nuovi aiuti da 145 miliardi di euro, il taglio di 100 miliardid di euro dal debito in mano ai grandi investitori privati, il mantenimento dei legami di solidarietà con i partner europei.

Una scelta profonda tra caos e ragione, tra mondo degli oligarchi rapaci che finora hanno dominato in Grecia ( e che puntano sull'uscita dall'euro per poter acquisire con quattro soldi svalutati i beni da privatizzare) e l'economia sociale di mercato del capitalismo renano. Per questo tutto il mondo guarda ad Atene: perché lì si decidono i destini dell'economia mondiale. Le scelte greche potrebbero spingere l'economia dalla recessione alla depresione o alla ripresa. Paradossalmente Atene, come Atlante, oggi ha sulle spalle i destini (economici) di molti altri paesi e istituzioni.

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