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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2012 alle ore 19:53.

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I tre operai della Fiat di Melfi reintegrati dalla Corte d'Appello di Potenza non hanno avuto «nessuna volontà diretta a impedire l'attività produttiva» il 7 luglio 2010. È quanto hanno scritto i giudici nelle motivazioni della sentenza evidenziando che i tre «non hanno avuto nessun gesto di sfida nei confronti dell'azienda».

La sentenza è stata emessa lo scorso 23 febbraio: secondo i giudici del lavoro, Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli (i primi due all'epoca delegati Fiom, il terzo solo iscritto al sindacato), nella notte del 7 luglio 2010 «hanno esercitato un diritto costituzionalmente garantito» qual è quello di sciopero, «senza valicarne i limiti» e con una forma di protesta che ha coinvolto altri operai, ai quali però la Fiat «non ha contestato nulla».

Nei confronti dei tre licenziati, il responsabile della linea produttiva - nella notte tra il 6 e il 7 luglio 2010 - ha tenuto un atteggiamento «provocatorio» rapportandosi agli operai in un modo «che non è stato così tranquillo e pacato come la società sostiene»: i giudici fanno riferimento al colloquio avvenuto quella notte davanti ai carrelli bloccati che avrebbero impedito, secondo la Fiat, il prosieguo della produzione, da cui è scaturito poi il licenziamento.

I licenziamenti dei tre operai della Fiat di Melfi rappresentano «nulla più che misure adottate per liberarsi di sindacalisti che avevano assunto posizioni di forte antagonismo» con «conseguente immediato pregiudizio per l'azione e la libertà sindacale»: lo scrivono, nelle motivazioni della sentenza, i giudici di Potenza.

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