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Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2012 alle ore 20:15.

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Il Gulistan è un posto difficile anche da pensare. Questo luogo sperduto, dove è stato ucciso in un attacco a colpi di mortaio il sergente Michele Silvestri, è la polvere dell'Afghanistan, alzata a mulinelli dal vento, che penetra ovunque e avvolge l'orizzonte in un'atmosfera sospesa, cinerea, giallastra e allo stesso tempo abbagliante. Soffocante di giorno, pungente di notte, il Gulistan è il territorio comanche dei talebani, un Far West dell'Oriente, teatro di agguati e denso di insidie che si nascondono lungo la strada 522, in un paesaggio apparentemente immobile che il silenzio rende ancora più inquietante.

E' questo orizzonte desolante che, ogni giorno, vedono i soldati italiani degli avamposti. Il Gulistan viene descritto dai comandi della Nato-Isaf come una zona "ad alta densità di talebani", all'incrocio strategico dei passaggi obbligati che conducono la guerriglia da Sud verso Nord.
Quando gli americani e le truppe afghane decidono di sferrare un'offensiva nell'Hellmand la guerriglia ha due possibilità: passare il confine della Linea Durand per rifugiarsi nei santuari pakistani oppure scegliere di ripiegare in Gulistan e nella provincia Farah dove è schierato il contingente italiano.

Per questo i talebani da qui non se vanno e tentano di tanto in tanto delle sortite per tenere sotto pressione i soldati della Nato: è una linea di fuga vitale per la guerriglia, un "corridoio" dove viaggiano uomini, armi e anche l'oppio.

In dari, l'antico persiano parlato dagli afghani, Gulistan significa giardino delle rose ma non ha niente di fiorito e poetico, è una distesa aspra di sabbia e pietraie ai piedi delle montagne dove l'80% della popolazione è pashtun, l'etnia più importante, che alimenta le schiere dei talebani. Insieme ai guerriglieri ci sono dozzine di bande armate, non soltanto pashtun ma anche tagike, che lavorano ai fianchi le truppe della Nato e a volte sono in concorrenza tra loro per controllare le vie delle armi e della droga.

E' questo l'Afghanistan dove resteremo fino al 2014, dove stiamo combattendo un conflitto in cui il vero nemico, oltre alla guerriglia, è la motivazione. Una guerra che va avanti da oltre dieci anni, la più lunga mai combattuta dagli americani, che dopo l'uccisione di Bin Laden sembra avere perso gran parte del suo significato. Questa è pure una delle ragioni perché si ripetono episodi ingiustificabili, dall'oltraggio ai cadaveri da parte dei marines, al rogo del Corano nella base di Bagram, all'ultimo eccidio di Kandahar: si è creata la "sindrome da avamposto", da isolamento, un senso di scollamento tra chi rischia la pelle sul campo e i motivi che ci hanno portato tra i picchi dell'Hindukush. Ed è proprio in avamposti come il Gulistan che chiediamo ai soldati italiani di rischiare la pelle: serve qualche cosa di convincente, forse una nuova strategia di Washington e della Nato, per continuare questo sacrificio. Ma dell'Afghanistan, per mille motivi, non ci si libera facilmente: questo, da sempre, è una sorta di cimitero degli imperi.

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