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Questo articolo è stato pubblicato il 27 maggio 2012 alle ore 13:46.

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Le diagnosi di questi giorni dello stato dell'eurozona e delle sue prospettive portano in genere al più nero pessimismo. Intanto, quello che ne dovrebbe essere il sistema circolatorio, il mercato interbancario al quale è affidato il movimento dei flussi finanziari da un comparto all'altro della stessa eurozona, ha cessato di funzionare.

I comparti nazionali vivono ciascuno per conto suo e le sorti delle banche di ciascun Paese dipendono sempre più dalla mole e dalla rischiosità dei titoli pubblici che hanno in portafoglio.
L'eurozona viene perciò giustamente descritta come un organismo che ha subito un infarto e va avanti con tutti gli handicap e le discontinuità funzionali che usualmente conseguono a un infarto particolarmente grave. È più di là che di qua, come si dice sbrigativamente per gli esseri umani.

Poi ci sono le prospettive future, che dipendono in primo luogo dalla sorte della Grecia, e qui si ha la sensazione di essere davanti a un esercizio sempre più scoperto di ipocrisia da parte della leadership europea. Dichiarazioni solenni di intangibilità dell'eurozona e di impegno comune perché la Grecia continui a farne parte, sottolineatura non solo degli obblighi dei greci, ma anche dei programmi di sviluppo e di occupazione volti ad alleviare la loro recessione (così il comunicato del Consiglio europeo dopo la cena informale di mercoledì scorso).
Insomma a parole tutto ciò che era stato sollecitato per propiziare un esito delle elezioni greche favorevole alla prosecuzione del lavoro comune.

Dietro le parole, però, non trapela nessuna intenzione di mettere in campo quelle armi pesanti, che tutti sanno essere necessarie per bloccare i mercati prima dell'uscita della Grecia, dal via libera agli interventi della Banca Centrale Europea per evitare il collasso delle banche, alla garanzia dei depositi, all'una o all'altra forma di mutualizzazione di debiti pubblici.
Ma come mai è così? Ha davvero ragione che interpreta questa scelta di apparente impotenza come il frutto della vista corta della politica e in particolare della schiavitù di Angela Merkel nei confronti del gretto egoismo degli elettori tedeschi che non vogliono pagare per altri e non percepiscono i danni che in questo modo finiscono per fare a se stessi?

Personalmente non ritengo che la spiegazione sia questa e sono incline a pensare che in Germania, e non nella cosiddetta pancia dell'elettorato, ma nei circoli di coloro che sanno e che contano, stia prevalendo la convinzione che per salvare l'eurozona bisogna buttarne fuori i Paesi troppo deboli per starci e fonte per questo di guai per tutti gli altri. Non è una convinzione nuova, è quella che i tedeschi avevano ancora prima che l'euro nascesse e alla quale poi non si attennero, grazie, fra l'altro, alla autorevolezza e alla vis persuasiva del nostro ministro del Tesoro del tempo, Carlo Azeglio Ciampi, e successivamente all'esigenza tutta politica di dare all'eurozona una adeguata consistenza numerica.

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