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Questo articolo è stato pubblicato il 04 agosto 2012 alle ore 14:06.

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Nel quartiere tarantino di TamburiNel quartiere tarantino di Tamburi

Il quartiere Tamburi, quindicimila cristiani che vivono sotto le ombre delle ciminiere dell'Ilva, avrebbe attirato l'interesse e sollecitato la pietas di Italo Calvino. Qui si realizzano le geometrie e i paradossi, le simmetrie e le irregolarità di una delle Città Invisibili. Nessun altro luogo condensa di più le contraddizioni di Taranto, con il suo vento che trasporta polveri delle lavorazioni e che smeriglia di luce propria il blu del mare.

«Guardi, guardi qui», dice Laura Grassi, casalinga, mentre ti indica un sacchetto di plastica pieno di medicinali. «Se vuole le faccio l'elenco dei malanni che abbiamo io e i miei familiari». Il dolore della malattia si unisce al logorio della quotidianità. I muri anneriti delle case avrebbero il colore della pece se, negli anni Ottanta, non fossero state erette le collinette artificiali per provare a tenere lontani i residui sparsi nell'aria.

Ogni scelta, anche la più semplice, è rivestita da una patina di emotività. «Io non dò alla mia nipotina il pesce fresco di questo mare, io compro i surgelati», racconta Laura. «Di notte, se mi alzo, non vado mai scalza sul balcone, perché sennò quando torno a letto lascio le impronte nere sulle lenzuola», aggiunge Grazia Fonseca, ex parrucchiera, da quarant'anni nel quartiere.

Su Piazza Gesù Divin Lavoratore si affaccia una chiesa che ha, nell'abside, un grande mosaico in cui Cristo è circondato da un operaio e da un impiegato delle acciaierie, da un marinaio e da un lavoratore degli arsenali navali. Qui vive Padre Nicola Preziuso, direttore della pastorale del lavoro e dal 1979 cappellano dell'Ilva, un prete che quando arriva in stabilimento sulla sua moto honda è accolto dalla voce «fallo passare, u prevete è de nuestre (fallo passare, il prete è uno dei nostri)». Padre Nicola, membro della congregazione dei Giuseppini del Murialdo, maneggia ogni giorno il dolore degli altri, e cerca di togliere con la forza persuasiva della razionalità la polvere nera che si accumula sul valore della fabbrica, in termini di occupazione e di cultura industriale, di identità delle persone e di ponte verso il futuro. «Il peccato originale - spiega - è stata la scelta, compiuta nella seconda parte degli anni Sessanta, della collocazione dell'area parchi, dove viene stoccata e conservata la materia prima. Per il nostro rione molti dei problemi non ci sarebbero stati se qui, a poche centinaia di metri dalle case, fosse stata collocata un'altra parte dello stabilimento».

Una delle tante decisioni prese quando, anche in Italia, l'industrializzazione era una specie di religione dell'efficienza e del gigantismo. Non una tendenza in qualche maniera criminaloide del capitalismo pubblico. Piuttosto un portato del razionalismo economico fordista che non prestava troppa attenzione alla vicinanza delle case degli uomini e agli effetti sull'ambiente dei processi industriali, nemmeno nelle lavorazioni per definizione potentemente inquinanti come la siderurgia a ciclo completo. Dolore e felicità. Prosperità e povertà. Rimpianto e nostalgia. «Taranto con l'acciaio è diventata una città ricca – nota Tommaso Pernisco, dal 1978 in Italsider, da due anni in pensione – fin dalla mattina alle cinque i bar erano pieni di lavoratori. Non eravamo felici soltanto per i soldi. Anche nella testa stavamo bene. Sapevamo che cosa eravamo».

Bene nella testa, come l'aristocrazia operaia di Sesto San Giovanni, Cornigliano e Torino. Male nel corpo. «Se chiude l'Ilva, finiscono anche i discorsi sull'inquinamento, ma l'inquinamento non finisce, resta la crosta che si è creata soprattutto nei primi trent'anni dello stabilimento», prosegue Tommaso. Odio e amore per la fabbrica. «Nell'Ilva dei Riva ho visto tante ore sulla sicurezza che prima non c'erano, hanno fatto molti investimenti. Resta però quanto ci tocca vivere qui, tutti i giorni, da quarant'anni».

Continua Tiziana Grassi: «Certo, se è vero che il presidente dell'Ilva, Bruno, Ferrante ha dato la sua disponibilità a spostare i parchi, portando via i cumuli di minerali che qui a Tamburi quasi tocchiamo con le mani, allora si inizia a ragionare». Anche se, nel rione dei malati, una goccia si aggiunge a un'altra goccia, e poi a un'altra ancora. Tiziana ha in mano una prescrizione. È appena tornata dal medico. Le hanno diagnosticato un nodulo della tiroide di sette millimetri. Ogni ticket serve per quattro esami. Ne deve fare dodici. Quarantasei euro e cinquanta centesimi moltiplicato per tre fanno centrotrentanove euro e cinquanta centesimi. «Mio marito lavora nell'indotto dell'Ilva – continua Tiziana – e da sette mesi risulta in Cig. Dunque, non ho alcuna esenzione per fare le analisi e capire se ho un tumore. La sua azienda non anticipa però la cassa, come dovrebbe fare. Da sette mesi non riceviamo un euro».

In questa pianta storta che è l'Italia, ci sono i rami che si protendono verso il futuro. «Dall'Ilva bisogna ripartire per costruire», osserva Padre Nicola. Che aggiunge: «Questi ragazzi hanno costruito acciaierie in Brasile e in Iran. Hanno imparato a coniugare efficienza industriale e alta scientificità, teoria e pratica. È questa la cifra della loro cultura industriale, che con i Riva si è ancora più affinata».

E, così, nelle linee geometriche delle loro cartine mentali, esiste una capacità di pensare al futuro che potrebbe anche vivificare l'intero tessuto intorno alla fabbrica. «Si tratta di una speciale architettura del pensiero – riflette Rosella Tegas, 26 anni, da poco laureata in giurisprudenza – che potrebbe servire per progettare il futuro. La monocultura industriale, in ogni caso, ha creato una eccessiva dipendenza, che lega tutti noi, per la vita e per la morte, alla siderurgia. Servono anche turismo, servizi e nuove tecnologie. Di competenze e di cultura del lavoro, qui, ne abbiamo tante».

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