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Questo articolo è stato pubblicato il 09 agosto 2012 alle ore 06:39.

Un boato potente che frantuma la parte superiore della finestra della stanza al Palace Hotel annuncia la battaglia di Salaheddin, l'offensiva dei lealisti contro gli insorti, lo scontro decisivo per il controllo di Aleppo e le sorti della guerra civile siriana. Le forze di Bashar Assad tentano di entrare nella roccaforte dei ribelli: all'incrocio tra la Stadium Highway e la Terza Strada, a confini con il quartiere di Hamdania, prendono posizione i carri armati. Un T-72 di fabbricazione russa manovra lasciando l'impronta dei cingoli su un asfalto liquefatto dal caldo, si ripara dietro il relitto di un camion e comincia sparare. Gli insorti rispondono con granate anti-carro Rpg ma soprattutto contano sulla mira dei cecchini per frenare l'avanzata dei lealisti.

Alle cinque del pomeriggio, quando lascio Salaheddin, i lealisti non hanno ancora conquistato il quartiere né i ribelli ne hanno perso il controllo. Ma questa è una città dai due volti opposti, inconciliabili e quasi paradossali, in bilico tra la guerra e un'apparente normalità, paragonabile in parte alla Beirut degli anni Ottanta. Sulla linea del fuoco mi accompagna in auto, senza paura, una giovane donna di 25 anni, Basma, sposata, madre di tre figlie ed esponente di una tribù sunnita, i Bannawi.

Abdel Kahder, soldato di leva di 19 anni, originario di Raqqa, 160 chilometri da Aleppo, sostiene che i lealisti stanno vincendo sui ribelli, che chiama terroristi secondo la versione ufficiale del presidente Assad: «Li abbiamo scacciati da una scuola che era diventato il loro ospedale campo: non li temo e non ho paura di combatterli». Sulla divisa porta l'effigie della triade alauita del clan Assad: il volto del capostipite Hafez, quello di Bashar e del fratello Basel, l'erede designato morto in un misterioso incidente d'auto. Sono i ritratti di una cosmogonia del potere che domina la Siria generazione dopo generazione. Gli chiedo cosa spera di fare quando tutto sarà finito: «Penso che tornerò al negozio di verdura di mio padre». Mentre termina la frase la fucilata di un cecchino degli insorti taglia l'aria dell'ingresso di Salaheddin.

Dall'altra parte i ribelli dell'Esercito libero siriano (Els) non mollano la presa su Aleppo. «Siamo a Saleheddin e resistiamo», proclama a metà della giornata il colonnello Abdel Qader Saleh, comandante della Brigata Tawhid, uno dei gruppi di fuoco dei duri e puri della rivolta. Salaheddin sembra sul punto di capitolare e i soldati di Bashar Assad si fanno più baldanzosi. Uno dei portavoce dell'aviazione che incontro nel quartiere di Al Zhara mi promette che entro un'ora potrò attraversare il quartiere «ripulito» dai ribelli. I soldati sono acquartierati in una casa di nuova costruzione che è diventata un bivacco improvvisato: dormono sui divani all'aperto, sfiniti dai combattimenti.

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