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Questo articolo è stato pubblicato il 30 settembre 2012 alle ore 13:48.

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Non vorrei che avesse ragione Simon Tilford, quando scrisse il 12 luglio scorso sul sito del Centre for European Reform di Londra che l'eurozona aveva raggiunto il limite del politicamente possibile, senza ancora aver fatto ciò che è necessario. E il rischio che ne deriva - aggiungeva - è che tutto salti proprio per l'impotenza della politica davanti a ciò che serve e che essa non è in grado di fare.

Per la verità Tilford scriveva queste cose quando ancora la Banca Centrale non aveva preso la storica decisione di intervenire «con mezzi illimitati», era ancora sub iudice (tedesco) il fondo salva-Stati e un no dalla Germania era perciò possibile su entrambi i fronti. C'era quindi un clima di nervosa incertezza che si è poi in buona parte diradato, tant'è vero che gli spread viaggiano ora a livelli più bassi. Sappiamo però di non essere usciti dai guai e di vivere una fase di sospensione, che può deteriorarsi in qualunque momento per le cattive notizie sul debito greco, per il perdurare della recessione italiana, oppure per l'aggrovigliarsi dell'intreccio fra il debito pubblico di Madrid e le difficoltà delle banche spagnole, esattamente com'è accaduto in questi giorni.
Ed ecco le ragioni che mi riportano alla mente ciò che Tilford scriveva due mesi fa. I previsti interventi della Bce e del fondo salva-Stati, nonostante la luce verde tedesca, poggiano sui ponteggi di una costruzione in corso, un'eurozona ben più integrata che ancora non c'è. E poggiano, per converso, sul perdurare di diffidenze e ostilità delle nostre opinioni pubbliche nazionali, sempre più restie nei confronti dei sacrifici loro richiesti (agli uni in forma di misure di austerità, agli altri in forma di trasferimenti), in nome di una solidarietà comune che chiaramente non c'è e che dell'integrazione sarebbe invece il presupposto essenziale.

Il punto di frizione fra ciò che è necessario e ciò che appare politicamente possibile è esattamente qui. La necessità di cui si parla è infatti quella dell'integrazione politica in chiave quasi federale, sulla cui convenienza ho scritto più volte nei miei articoli precedenti.
Nella conferenza italo-inglese di Pontignano, svoltasi nello scorso week end, sono state tante le voci che si sono espresse in questo senso e alcune erano proprio inglesi. Cio che in esse colpiva erano insieme la ferma asserzione di partenza e poi la domanda finale. L'asserzione era che non solo la politica economica, ma la stessa politica estera potrà essere efficace solo se condotta da una Unione europea più federalizzata. La domanda era se si riuscirà a farla e se riuscirà il Regno Unito ad esserne parte.

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