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Questo articolo è stato pubblicato il 26 novembre 2012 alle ore 08:09.

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Nel 1968 Bob Kennedy incendiò gli animi dell'America democratica sostenendo che non tutto il Pil influenza positivamente il benessere sociale e «tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia o dei momenti di svago».

Sono trascorsi oltre quarant'anni d'oblio prima di mettere nuovamente in discussione il Pil - termometro del mercato economico, come efficace misura di sviluppo e progresso.
Da cinque anni a questa parte, a livello internazionale sono esplosi i think tank dell'Ocse, della Commissione europea, di Sarkozy (la commissione Stiglitz) per passare «dalla misura della ricchezza alla misura della sua distribuzione».
Anche l'Istat e il Cnel, in chiave domestica, sono impegnate in questa corsa dei great minds per definire il wellbeing standard. L'indagine sulla qualità della vita del Sole 24 Ore ha di gran lunga precorso questo dibattito.

Purtroppo, le segnalazioni fatte in oltre vent'anni di vita dell'indagine, in merito al disagio sociale e ambientale profondo di alcuni territori italiani (non solo meridionali), sono rimaste inascoltate come le parole di Bob Kennedy a livello internazionale.
Il benessere e il bene comune, almeno nell'Italia della seconda Repubblica, non sono certo stati al centro della politica economica, a sua volta, a dir poco "evanescente". Inoltre, l'attuale crisi finanziaria ed economica e la conseguente depressione sociale appaiono il contesto meno favorevole per il fiorire delle raffinate analisi "oltre il Pil" poiché tutti sperano nella sua crescita.
A dire il vero, diviene enigmatico anche interpretare le più autorevoli ricerche sulla qualità della vita, dopo le rasoiate retributive e fiscali inflitte ai ceti medi urbani, il rattrappimento delle capacità d'investimento pubblico e privato, lo stato depresso dei consumi ben oltre la recessione economica, l'aumento tedioso delle disuguaglianze e il credit crunch, per citare solo alcune delle fenomenologie che hanno influito sulla sostenibilità sociale e ambientale del paese.

Forse, in questi tempi di crisi, la classifica provinciale del Sole 24 Ore, più che la qualità della vita tout court, riguarda dove la vita è meno peggio, un ragionamento giustificato dalle differenze piuttosto estreme tra territori (si veda la distanza tra Bolzano e Taranto).
Si vive meno peggio nelle medie città del Centro Nord dell'Italia: questo è un dato acquisito negli anni, crisi o non crisi.
Si vive meglio in queste dimensioni medie provinciali per due motivi.
Il primo riguarda la civitas. Le medie città del Centro Nord riescono a bilanciare con maggior efficacia le diverse componenti della qualità della vita, risolte di frequente con "buone pratiche", che anche Doing Business 2013 ci riconosce.

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