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Questo articolo è stato pubblicato il 23 dicembre 2012 alle ore 15:39.

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Un radicalismo riformista di centro per contrastare le nuove diseguaglianze senza frenare la crescita. È nella citazione dell'editoriale dell'Economist la chiave dell'agenda economica che Mario Monti propone al Paese. In quell'articolo si parla di «vero progressismo» in una chiave tipicamente liberale. La priorità si dice è l'attacco ai monopoli e alle barriere protettive, «che siano le grandi imprese di Stato in Cina o le grandi banche di Wall Street». Perché - dice l'Economist - non è possibile che l'uomo più ricco del mondo sia Carlos Slim, che ha accumulato il suo patrimonio nel settore protetto delle telecomunicazioni messicane.
Lotta alle posizioni di rendita, trasparenza, buon funzionamento del mercato, dunque, in primissimo piano. Un riformismo moderno, invoca Monti. E si capisce subito qual è il suo cruccio e il messaggio che vuole dare: la crescita economica può venire dalle riforme fatte da una politica che non si nasconde, che non si svende per farsi rieleggere, che non si mette sotto la protezione dei gruppi di interesse.

È anche un modo di rileggere questo anno di governo. L'aver dovuto fronteggiare l'emergenza finanziaria ha avuto un impatto inevitabilmente negativo sulla crescita, dice Monti. Ma certamente si poteva fare di più. Si poteva fare di più e meglio sulle liberalizzazioni, frenate in Parlamento e nell'attuazione dal peso delle lobby. Si poteva fare di più sulle semplificazioni. Si doveva, soprattutto, fare di più e meglio sul lavoro.
Eccolo il punto centrale. Qui l'obiettivo polemico è stato forte e chiaro: la Cgil e una certa sinistra che pensano di difendere il lavoro attraverso «un arroccamento nel passato su tutele che oggi in realtà penalizzano i lavoratori». L'auspicio di Monti è che quelle forze evolvano, «perché così danneggiano i lavoratori italiani».

Torna quindi il concetto di «vero progressismo». E sul lavoro Monti non potrebbe essere più chiaro nell'elencare le priorità: semplificazione delle leggi e delle regolamentazioni che ingessano il mondo del lavoro, superamento del dualismo tra lavoratori protetti e non protetti, spostamento della contrattazione verso i luoghi di lavoro collegando le retribuzioni alla produttività.

La vicinanza alle ricette di quel Pietro Ichino che rischia oggi l'emarginazione definitiva nell'ambito del Pd è evidente. Monti sembra quasi parlare a Bersani: il vero riformismo è su queste ricette, non in quelle della Cgil. Qui l'operazione di Monti si fa anche politica, perché è evidente la volontà di collaborare con il Pd dopo il voto (non con il Pdl di Silvio Berlusconi, costante obiettivo polemico della conferenza stampa), ma possibilmente un Pd depurato dai vincoli delle ideologie più di sinistra e da un rapporto asfissiante con la Cgil. Per un «vero progressismo», appunto.

Resta un dubbio: può questa battaglia di riformismo moderno contro le posizioni di rendita camminare sulle gambe di piccole forze politiche tradizionalmente vicine alla spesa pubblica indiscriminata e a un certo assistenzialismo clientelare al Sud?

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