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Questo articolo è stato pubblicato il 17 gennaio 2013 alle ore 06:55.

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Il rating come certificato pubblico ha fatto comodo a tutti i protagonisti della nostra commedia: emittenti, investitori, ed anche ai regolatori, che invece di assumersi le proprie responsabilità di valutazione del rischio hanno potuto delegare il tutto al responso del rating.

Tutto bene madama la marchesa, finché non sono arrivate prima le crisi asiatiche, poi soprattutto la Grande Crisi iniziata nel 2007. Le opinioni delle Agenzie sono apparse tutt'altro che robuste; errori, ritardi - o semplicemente assenza di nuove informazioni - sono apparsi sempre più rilevanti. Di riflesso, anche i cardini su cui la loro reputazione era fondata hanno iniziato a scricchiolare; ma le Agenzie sono davvero indipendenti? Sono davvero speciali?
Questi dubbi – su cui è in corso un intenso dibattito economico ed empirico – almeno una certezza però la producono: non possiamo più permetterci il lusso di fondare regole del gioco fondamentali per la stabilità finanziaria sulle opinioni delle Agenzie. Perché se la robustezza delle opinioni è messa in discussione, ma ciò nonostante i mercati continuano a dare peso a tali opinioni, la ragione è una sola: l'effetto certificazione. Così il rating finisce per creare – diremmo suo malgrado - danni pubblici, in termini di instabilità finanziaria.

Dunque la strada maestra – non sufficiente, ma indispensabile – per ridurre i rischi di instabilità legati all'attività delle Agenzie è quella per così dire di riprivatizzare il rating, eliminando ogni forma di riferimento ad esso in tutte le regole e regolamenti che l'Unione Europea definisce, promulga, incoraggia. In questa direzione si sono mossi, almeno in linea di principio, anche gli Stati Uniti.
Individuato il problema e la prima necessaria soluzione, ci si poteva aspettare che Bruxelles agisse di conseguenza, come un buon medico che sa quale medicina somministrare. Bruxelles purtroppo è stato invece un pessimo medico. Invece che percorrere la strada della privatizzazione del rating, ha intrapreso quella contraria di una sorta di iper- certificazione. Invece di ridare al rating la sua natura di opinione offerta da un soggetto privato che cerca di far profitti, ha preteso di disegnare meccanismi di controllo ex post delle opinioni, di fatto accentuandone la patente pubblica, con tutte le distorsioni che questo comporta. Tali meccanismi hanno un solo vantaggio: creare lavoro artificiale per le burocrazie ed i regolatori europei e nazionali, a tutto vantaggio ovviamente per i peggiori tra essi.

La commedia di Bruxelles è così continuata anche ieri, con tratti anche di involontaria comicità. Dalle cronache emerge ad esempio che il legislatore europeo riconosce la necessità di privatizzazione del rating, ma a partire dal gennaio 2020. Intanto, vengono avviati provvedimenti - come le regole sulla politica di comunicazione del rating oppure sulle responsabilità delle Agenzie - che avrebbero sostanza ed efficacia solo in un quadro di privatizzazione del rating. Nel disegno attuale, sono dei palliativi, utili come il fumo senza arrosto.
Di fatto, l'effetto certificazione del rating continuerà a produrre da un lato vantaggi privati per le Agenzie – che affermano legittimamente di poter e voler farne a meno – e per i regolatori deresponsabilizzati e dall'altro lato potenziali danni sistemici. Ed intanto, la commedia continua.

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