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Questo articolo è stato pubblicato il 29 gennaio 2013 alle ore 08:15.
L'ultima modifica è del 29 gennaio 2013 alle ore 08:22.

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Il World Economic Forum di Davos ha avuto il merito di portare davanti alle opinioni pubbliche quella che si annuncia come la questione centrale del 2013: la guerra delle valute. Ma come, si dirà, non era il lavoro, la creazione di nuova occupazione, la priorità mondiale del nuovo anno? Sì, lo è. Ma la guerra per il lavoro si combatterà anche, e forse soprattutto, con la guerra delle valute. Perché è dalle valute che oggi passa la leva più potente per la competizione tra i sistemi produttivi e, quindi, la capacità per ciascuno di essi di creare posti di lavoro.

A dare fuoco alle polveri è stato il premier giapponese Shinzo Abe, che sta spingendo la Banca del Giappone a stampare yen sempre più aggressivamente. Negli ultimi due mesi lo yen ha già svalutato del 10% sul dollaro e del 14% sull'euro, rendendo più competitive le esportazioni nipponiche e aprendo di fatto il conflitto commerciale. Ma non tutto parte da qui. Anche se non lo ammetteranno mai, Stati Uniti e Regno Unito hanno fatto qualcosa di non molto diverso in questi anni, con la Federal Reserve e la Bank of England che stampavano moneta per acquistare titoli. Per non parlare della Cina con il suo Yuan, e poi la Corea del Sud e il Brasile, Thailandia e Singapore, India, Taiwan, Svizzera: tutti impegnati ad abbassare il valore delle loro monete per non rimanere al palo nella corsa all'export.

E l'euro? L'euro è restato alla finestra senza possibilità di reazione. Un guscio di noce in balia delle onde. Fino al paradosso che, pur essendo la moneta dell'area economicamente più debole, l'Europa, si è apprezzato rispetto ai minimi del 10% sul dollaro, del 25% sullo yen e dell'8% sulla sterlina.

Ora c'è chi invoca il G20 e anche i sacerdoti della Bundesbank si accorgono di quanto rischiosa sia questa guerra valutaria. Ma il problema non è il G20. E non è neppure l'aggressiva politica monetaria giapponese. Sono le mani legate dell'Europa. Mai come davanti a questa competizione valutaria noi europei tocchiamo con mano l'inefficienza della governance economica che ci siamo dati con la nascita della moneta unica. Mai come oggi dovremmo guardare al nostro interno e fare mea culpa per gli errori fatti in questi anni.

Attraverso le valute, è stata lanciata la guerra atomica per la competitività delle grandi aree economiche mondiali. E l'Europa combatte a mani nude. Con la sua "strana" banca centrale che per statuto ha come mandato la sola stabilità dei prezzi e il buon funzionamento del mercato. Draghi si è inventato il Ltro, il finanziamento a lungo termine di mille miliardi, ma la liquidità immessa nel sistema viene poi sterilizzata: ben altra cosa è il quantitative easing sparato nel sistema dai nostri competitori commerciali.

La Fed ha per legge il compito di tutelare l'occupazione ed è impegnata in due programmi di allentamento quantitativo (QE 3 e 4) per un totale di 85 miliardi di dollari al mese. In Giappone l'autonomia della Banca centrale è di fatto sospesa e ancora di più lo sarà quando tra pochi mesi ci sarà il cambio ai suoi vertici. La zona euro è invece bloccata dalle sue stesse regole di funzionamento.

La Germania fa bene, perciò, a guardare con preoccupazione all'offensiva giapponese. Le sue esportazioni sono destinate ad aumentare quest'anno solo del 2,8% contro il 4,1% del 2012 e l'euro forte non potrà che peggiorare la tendenza. Ma si illude se pensa di potervi far fronte attraverso la politica multilaterale del G20.

Il mondo è ormai un terreno di gioco con troppi contendenti e troppi interessi. L'Europa non può aspettarsi di imporre la sua idea di fairplay monetario come avveniva nel secolo scorso. Non è un caso se il Fondo monetario internazionale, che dovrebbe essere il "poliziotto" contro comportamenti simili, non è mai intervenuto dal '78 a oggi per manipolazioni del cambio.

Quando una guerra è in corso non conta il peso del tuo passato, contano le armi che sai mettere in campo. Un'Europa senza un Tesoro unico, divisa sulle politiche da adottare, dove continua a prevalere il dogma tedesco per una competitività fondata solo sulle riforme strutturali e dove le regole statutarie impediscono di avvalersi degli strumenti tipici di una Banca centrale, è destinata a perderla quella guerra. Forse a non combatterla neppure. A meno che, sotto il fuoco del nemico, non prenda coscienza che è venuto il momento (davvero) di cambiare. Ma il solo pensarlo è forse un peccato di ottimismo.

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