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Questo articolo è stato pubblicato il 06 febbraio 2013 alle ore 14:59.

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Una recessione che non sembra voler attenuare la morsa, un esercito di disoccupati che sfiora quota 3 milioni, l'occupazione che continua a ridursi, il 30 per cento dei giovani in cerca di un posto che rimane senza lavoro. Fino a che punto questa emergenza è una specificità italiana? E cosa bisognerebbe fare per attenuarne la gravità? Abbiamo provato a girare le domande (sulle quali, curiosamente, ben poco si interrogano i partecipanti alla gara elettorale) a due esperti del settore: Vincenzo Spiezia, ricercatore dell'Istituto studi internazionali del lavoro dell'Ilo di Ginevra e Giuseppe Ragusa, economista del lavoro e docente di econometria alla Luiss di Roma.

Produttività e formazione
«La prima considerazione da fare è che l'aumento della disoccupazione che si sta verificando in Italia, nonostante le misure di politica economica adottate per risolvere la crisi del debito sovrano non è un fenomeno italiano ma appartiene all'intera zona dell'Euro» osserva Spiezia «Così come riguarda l'intera eurozona il fenomeno della disoccupazione giovanile che continua ad aumentare e si accumula nel tempo». Il terzo fattore comune, secondo l'economista dell'Ilo, è l'attuale debolezza relativa del settore manifatturiero come fonte di lavoro:«Già prima della crisi- spiega– in Italia era visibile questa riduzione del valore aggiunto generato dal manifatturiero ; negli ultimi dieci anni si è ridotta la capacità dell'industria italiana di inserirsi in una catena mondiale della produzione che è diventata molto frammentata». Di qui l'esigenza, secondo Spiezia, di riuscire a spostarsi su settori a maggior valore aggiunto e di rilanciare la produttività. «Certo – aggiunge– sul versante dei costi sarebbe utile e opportuno un abbattimento della contribuzione. Ma è comunque essenziale spingere sul lato della produttività. E per potenziare la produttività del lavoro– conclude– ci vogliono investimenti in capitale umano».

Flessibilità su base territoriale
Per Giuseppe Ragusa nel valutare la situazione italiana occorre separare i problemi congiunturali da quelli di struttura. «Da un lato– ricorda– abbiamo un ciclo economico avverso che sta producendo l'aumento della disoccupazione e, dal momento che la nostra produttività e più bassa di quella di altri paesi, anche una pressione verso il basso sui salari reali». Dall'altro, osserva Ragusa, è tuttora aperto il problema di come intervenire sul piano strutturale: «A mio parere- sostiene– gli interventi del ministro Fornero non sono stati molto incisivi, anche perchè la vera questione all'ordine del giorno per le imprese è la possibilità di disporre in modo della forza di lavoro all'interno delle unità produttive. In Italia abbiamo ancora il mansionario rigido da rispettare». Servirebbe dunque una maggiore flessibilità dei contratti su base territoriale, correlata alla produttività: «In fondo– conclude Ragusa– il modello virtuoso tedesco a cui tanti fanno riferimento nasce dalle proposte della Commissione Hartz, che hanno lasciato ampi margini alla contrattazione territoriale e hanno permesso una riduzione salariale nell'area meno produttiva del paese, che era la Germania dell'Est».

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