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Questo articolo è stato pubblicato il 03 marzo 2013 alle ore 14:25.

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La politica italiana ha non cento, ma mille problemi da risolvere per comporre il puzzle lasciatole dalle elezioni politiche. In questo mare di difficoltà, tuttavia, c'è una circostanza che lascia sperare ed è la possibilità che sulle cose da fare per l'economia le tessere si mettano insieme lungo linee e percorsi ben più condivisi di quanto sarebbe accaduto mesi fa.
Mesi fa le politiche di austerità e non solo loro, ma la loro stessa scansione severissima nell'entità e nei tempi costituivano un "must" a cui era impensabile contrapporre ragioni diverse e neppure , più semplicemente, richiami a un maggiore equilibrio. Si passava per sconsiderati, se non per viziosi pervicacemente ostili ad ogni correzione dei propri vizi.

Cresceva lo spread dei paesi più indebitati, cresceva nei paesi forti la convinzione che l'unico modo per uscirne fosse che ciascuno mettesse a posto i propri conti al più presto, mentre sarebbe stato non solo economicamente sbagliato, ma moralmente ingiusto che i debiti di chi li aveva fossero posti a carico, con l'una o con l'altra forma di mutualizzazione, di quanti non avevano concorso a formarli. La stessa Banca Centrale venne tenuta per lungo tempo a freno, negando che i suoi compiti di politica monetaria le consentissero acquisti rilevanti sui mercati dei titoli pubblici. E a conforto di chi le doveva subire, si arrivò a dire che le politiche di austerità non avrebbero danneggiato l'economia e l'avrebbero anzi vitalizzata, perché avrebbero restaurato la fiducia dei mercati.

Non dimentichiamo che l'Italia, nell'estate del 2011, dovette sottoscrivere l'impegno a raggiungere il pareggio del bilancio addirittura nel 2013 e fu questo l'impegno che si trovò ad onorare il governo Monti.
A quel punto - è chiaro - il giudizio dei mercati, con il livello dello spread, era tutto affidato alla nostra capacità di onorarlo davvero. Il governo Monti lo ha fatto, con il rigore ed anche le asprezze che ciò comportava. Ma conta che lo abbia fatto. Né si può dire che non abbia cercato di allargare le maglie del pensiero unico di Bruxelles (e del Fondo Monetario Internazionale) proponendo il recupero di spazi per investimenti pubblici che riequilibrassero almeno un po' gli effetti recessivi delle misure restrittive. Ci ha provato ed anche più di una volta. Ma da Bruxelles non è venuto ascolto.

Ora la musica sta lentamente cambiando. Quello che gli eretici dicevano - una cura da cavallo così abbatterà l'economia più ancora del debito, che rischia anzi di crescere per questa stessa ragione - si è purtroppo avverato. E dall'interno della Commissione europea, dallo stesso Fondo Monetario, arrivano voci, che con sincerità ammettono: «Abbiamo sottovalutato gli effetti recessivi delle misure di austerità». Con la conseguenza che, se non le analisi del trasgressivo Paul Krugman, di sicuro quelle del più ortodosso economista belga Paul de Grauwe, oggi docente della London School of Economics, vengono condivise sempre più largamente.

È Martin Wolf a ricordarlo sul Financial Times del 26 febbraio. Quando era scoppiata la crisi dei debiti pubblici e gli spread avevano preso a salire, Paul de Grauwe aveva scritto che la ragione non erano tanto i fondamentali, quanto la carenza di liquidità indotta dall'assenza di interventi della Banca Centrale. Era stata questa carenza a tenere i mercati alla larga dai titoli dei paesi indebitati (abbassandone così il valore e alzando i tassi di interesse), perché chi li avesse comprati non sapeva se avrebbe poi potuto rivenderli secondo le sue necessità. Per verificare questa sua tesi de Grauwe ha poi esaminato i mercati dopo i massicci interventi che finalmente la Banca Centrale è riuscita a fare ed ha facilmente riscontrato che è a quel punto che gli spread sono calati. Certo, erano in corso anche le politiche d'austerità, ma a calmare i mercati era stato soprattutto Mario Draghi.

Ecco allora che il senno iniziale di de Grauwe diviene oggi il senno di poi dei molti che lo avevano ignorato e che solo ora - aggiungo - si ricordano di una verità elementare, che mai mi sarei aspettato venisse dimenticata a Bruxelles. Fra gli standard più usati dalla Commissione c'è infatti quello di valutare i comportamenti pubblici sul metro di ciò che farebbe un operatore privato efficiente nella stessa situazione. E nessun privato efficiente che debba risanare la sua azienda lo farebbe in modo così drastico e rapido da ridurla a un moncherino non più in grado di funzionare. Tanto varrebbe chiudere e fallire. Ma alla Grecia, e non solo alla Grecia, si è imposto di fare così, azzoppando tanto l'economia nel suo insieme quanto l'operatività degli apparati pubblici. Ora si comincia a prenderne atto (anche se ancora non lo ha fatto il tenace Commissario Olli Rehn).

Qual è il rilievo di tutto ciò per l'Italia? L'accelerazione verso il pareggio di bilancio a fine 2013 ci permette di presentare ad aprile il nostro nuovo programma di stabilità con una finanza pubblica quasi in equilibrio (con tutti gli aggiustamenti dovuti al ciclo). Il che è un bel vantaggio rispetto ad altri ed è anche una fonte non trascurabile di legittimazione a pretendere ciò che fino a ieri ci veniva negato. In primo luogo, quella piccola dilatazione del debito (dilatazione sul piano formale, perché nella sostanza il debito c'è già) necessaria a saldare i conti con le imprese creditrici dello Stato, mettendole così in condizione di lavorare e di far lavorare. Poi la luce verde agli investimenti pubblici, specie locali, per i quali le risorse ci sono, ma non le si usa per non violare il patto di stabilità. Giustamente qualcuno ha proposto che sia la Commissione europea a selezionare gli investimenti ammissibili fra quelli proposti. Ma la si smetta di dire di no, per la paura che qualcuno imbrogli e infili fra gli investimenti le spese correnti.

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