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Questo articolo è stato pubblicato il 04 aprile 2013 alle ore 12:42.

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Kim Jong-un è davvero pronto a scatenare una guerra nucleare con gli Stati Uniti e Seul o il suo è il solito bluff al quale Pyongyang ci ha abituato ormai da molti anni e che il giovane dittatore ha appreso da suo padre, Kim Jong-il? In questa crisi le incognite sono molte e rendono più complicata l'analisi ma i pochi elementi chiari aiutano a valutare le opzioni più credibili. Rispetto alle crisi innescate in passato dai nordcoreani quella attuale ha caratteristiche diverse e si inserisce in un contesto militare del tutto nuovo.

Oggi la Corea del Nord non ha solo arsenali chimici e missili a corto e medio raggio. Dispone di vettori balistici testati con successo e in grado di raggiungere parte del territorio statunitense e tutto il Pacifico, dispone di ordigni nucleari (testati anch'essi) anche se non è certo che sia riuscita a realizzare testate nucleari per i suoi missili del tipo Taepodong-2 migliorato. Gli arsenali strategici di Pyongyang rappresentano però la sua unica arma efficace poiché l'apparato convenzionale è obsoleto e i militari (oltre un milione) privi di addestramento alla guerra tecnologica, un lusso che i nordcoreani non possono concedersi con un bilancio della Difesa inferiore al miliardo di dollari annui, meno di un trentesimo di quanto spende Seul. Sul campo di battaglia convenzionale i sudcoreani spazzerebbero via le truppe del Nord in breve tempo anche senza l'intervento di Washington. Pyongyang però ha la "bomba" e ingenti arsenali chimici impiegabili sulla stessa Seul, situata non lontana dal confine del 38°Parallelo, ma un attacco con armi di distruzione di massa avrebbe conseguenze devastanti sulla Corea del Nord e il regime non può non esserne consapevole.

Sembrerebbe da escludere anche la pretesa nordcoreana di subordinare la distensione all'invio di ingenti aiuti economici internazionali: una tattica già utilizzata in più occasioni dal padre dell'attuale leader ma che oggi non sembra rientrare tra gli obiettivi di Pyongyang. Lo dimostrano almeno due elementi. Il blocco imposto da Pechino alle forniture energetiche e ai visti dei lavoratori nordcoreani impiegati in territorio cinese non ha sortito effetti distensivi nelle posizioni di Kim Jong Un. Inoltre la decisione nordcoreana di bloccare l'accesso dei manager e delle maestranze sudcoreane al distretto industriale "a sviluppo congiunto" di Kaesong comporterà un danno soprattutto alle casse di Pyongyang. Ciò nonostante l'operatività degli stabilimenti di Kaesong sembra preoccupare solo i manager della ventina di compagnie del Sud che operano in quel distretto. «In qualunque circostanza, il parco industriale di Kaesong deve rimanere attivo», hanno detto in un appello che esorta Pyongyang nordcoreane a rimuovere il divieto di ingresso ai lavoratori sudcoreani scattato ieri.

Escludendo che Kimn Jong un voglia arrivare alla distruzione del suo "regno eremita" e che punti a incassare aiuti per la sue economia perennemente in crisi profonda, vale la pena valutare la possibilità che l'escalation della minaccia abbia l'obiettivo di mettere in difficoltà gli Stati Uniti evidenziandone la scarsa e preoccupante capacità di deterrenza e dimostrando a Giappone e Corea del Sud che Washington non è in grado o non è disposto a rischiare la guerra nucleare per proteggerli.

In questo caso l'obiettivo di Pyongyang è ormai prossimo ad essere raggiunto poiché, a meno di un improvviso cambio di marcia, gli Stati Uniti non hanno assunto atteggiamenti politici e militari proporzionati alla minaccia. Neppure ai tempi della Guerra Fredda si era assistito a una così plateale e ripetuta minaccia di nuclearizzare il territorio statunitense e le basi situate in Giappone, a Guam e in Corea del Sud. Minacce ostentate alle quali l'amministrazione Obama ha risposto con timidezza e con misure esclusivamente difensive come il dispiegamento nell'isola di Guam di una batteria del sistema antimissile THAAD (Terminal High Altitude Area Defense) utile a intercettare i missili nordcoreani non a colpirne le rampe di lancio.

La Casa Bianca «continua a esortare la leadership nordcoreana a cessare le minacce provocatorie e a scegliere la strada della pace - si legge in un comunicato - rispettando gli obblighi internazionali. Gli Usa restano vigili di fronte alle provocazioni nordcoreane e sono pronti a difendere il territorio statunitense, gli alleati e l'interesse nazionale». Risposte come questa non impressionano certo Kim-Jong Un ma rischiano di rafforzare a Tokyo e Seul (e tra gli altri alleati del Pacifico) la percezione di una manifesta incapacità dell'unica super potenza del mondo di esprimere una deterrenza adeguata alle sue capacità militari. Soprattutto se si tiene conto che la dottrina strategica di Washington prevede di attaccare preventivamente le postazioni di armi di distruzione di massa puntate contro il territorio nazionale o Paesi alleati. Questo significa che per evitare di dover subire un primo attacco nucleare, gli Stati Uniti sono preparati a colpire le rampe di lancio al loro primo movimento sospetto. I nordcoreani lo sanno e hanno voluto sfidare Washington anche su questo terreno estremamente pericoloso spostando questa mattina un missile balistico a medio raggio sulla costa orientale.

L'impressione è quindi che i nordcoreani vogliano spingere sul campo del confronto (per ora solo dialettico) militare, terreno notoriamente scivoloso per Barack Obama che, dall'Afghanistan all'Iran, non ha mai brillato per determinazione e decisionismo nelle crisi belliche. Secondo un esponente dell'amministrazione statunitense citato dal Wall Street Journa, la Casa Bianca ha deciso di rinunciare ad atteggiamenti aggressivi nel timore che possano aggravare la crisi «rafforzando la prospettiva di possibili incomprensioni e che questo possa tradursi in errori di valutazione». La fonte afferma che l'amministrazione Obama non ritiene che la Corea del Nord non abbia piani imminenti di attacco ma è preoccupata che possa compiere passi affrettati se messa sotto pressione. Una politica del genere impone a Washington la rinuncia a una credibile deterrenza. Forse anche la "debolezza" di Washington ha contribuito a indurre i cinesi considerare possibile uno scontro tra Pyongyang, Seul e gli Stati Uniti. Pechino, che ha schierato ingenti forze militari lungo il confine con l'alleato ormai "fuori controllo", da un lato vede con soddisfazione le difficoltà di Washington in questa crisi ma dall'altro teme che in caso di guerra vengano colpiti gli impianti nucleari nordcoreani e milioni di disperati cerchino rifugio in territorio cinese.

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