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Questo articolo è stato pubblicato il 28 aprile 2013 alle ore 08:20.

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Tra gli economisti sono in pochi a dubitarne. Si è rivelata sbagliata la tesi di Alberto Alesina, secondo la quale l'austerità avrebbe fatto erompere la crescita. Quella di Carmen Reinhart e Ken Rogoff, secondo la quale un debito pubblico superiore al 90% è incompatibile con lo sviluppo, è risultata inficiata da errori matematici.
Cambiano musica gli economisti e la cambia la Commissione europea. Davanti al disastro spagnolo, la Commissione si è orientata a concedere due anni in più per realizzare il piano di rientro.

La Spagna tira il fiato, ma se la può cavare l'Europa limitandosi a consentire ai paesi indebitati un passo più lento? Non rischia di aprire nuove controversie, prima di aver reso chiaro quali azioni vanno fatte, e subito, perché lo sviluppo riprenda? Basta l'esame dei conti che noi conosciamo meglio, quelli italiani, a capirlo: allungare i tempi del previsto riaggiustamento ci dà un po' di respiro, ma non spezza il circolo vizioso.

Nel testo che ha depositato alla Camera sul DEF 2013, la Corte dei Conti nota che la spesa pubblica al netto degli interessi si è ridotta nell'ultimo triennio di quasi il 2 per cento, contro un aumento di circa il 10 nel triennio 2007-2009. Un risultato in sé straordinario, che tuttavia - aggiunge la Corte - «non si è tradotto in alcuna riduzione della spesa totale sul Pil, che resta al di sopra dei livelli pre-crisi». Mentre le entrate, nonostante l'abnorme pressione esercitata sui contribuenti, «sono risultate inferiori per poco meno di 30 miliardi alla stima avanzata nel Def della primavera 2012». Che cosa è successo? Ha ceduto il Pil e lo sforzo di ridurre il debito rispetto a esso comprimendo spese e aumentando entrate è sempre meno efficace. Il che suggerisce che l'attenzione si sposti sulle prospettive di crescita. Se di questo si tratta, limitarsi a rallentare il riaggiustamento rischia di mettere in allarme i tedeschi, che vi leggono la marcia indietro degli altri sul duro percorso che essi hanno fatto sino in fondo, e di non portare un beneficio a paesi già stressati dalla recessione e prigionieri del circolo vizioso. Capisco la cautela della Commissione, che prende atto degli errori di analisi e di previsione su cui si sono fondate le scelte fatte, si rende conto d'altra parte che diversi Stati membri (in particolare i più forti) hanno ragioni interne per leggere le cose in altro modo, e cerca di cambiare non con una virata brusca, ma con un mutamento morbido. Purtroppo, però, rallentare non significa cambiare e può lasciare impantanati nella vecchia rotta. Occorre il coraggio di mettere in cantiere azioni a presa rapida per lo sviluppo e connettere a esse, in ragione diretta della crescita del Pil che riuscissero a stimolare, l'allentamento delle misure di aggiustamento. Senza questa contestualità non si dà una mano ai paesi che ne hanno bisogno, non si rassicurano i mercati e non si convincono i tedeschi e gli altri nord europei.

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