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Questo articolo è stato pubblicato il 13 maggio 2013 alle ore 08:17.

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Invece di demonizzarli, sarebbe assai più produttivo perfezionare i test e presentarli agli allievi non come uno spauracchio ma come una delle possibili forme di valutazione che quasi certamente incontreranno spesso nel loro futuro. Nel contesto internazionale i test standardizzati sono ampiamente utilizzati sia nel mondo accademico che in quello lavorativo. Potremmo naturalmente rivendicare un'orgogliosa eccezione culturale, e tenerne al riparo i nostri studenti il più a lungo possibile. Non ci dovremmo sorprendere, però, se si troveranno di fronte a grandi difficoltà qualora volessero accedere a un dottorato negli Stati Uniti o prepararsi per un concorso all'Unione europea. O, per restare in Italia, se decidessero di sostenere le prove di accesso a Medicina, quelle per il S. Anna o la Bocconi, o, ancora, quelle per i concorsi da insegnante.
Un ragionamento simile vale anche per i test che sono stati utilizzati per l'accesso al Tirocinio formativo attivo, il Tfa. Purtroppo quelli della prima edizione, nel 2012, erano funestati da errori marchiani, e contenevano inoltre domande che, seppur corrette, erano inutilmente cervellotiche. Al netto di questi problemi, isolate cioè le domande che potrebbero benissimo far parte di un normale esame universitario, i risultati fanno comunque emergere dati significativi, sia a livello aggregato che analitico: non è irrilevante, per esempio, che un quarto degli aspiranti docenti di lettere classiche non sappia a quale secolo (secolo, non anno) riferire uno scrittore dell'importanza di Apuleio, o una percentuale ancora maggiore sbagli costrutti ginnasiali di latino.

Certo, si possono conoscere a menadito le date di nascita e di morte di tutti gli autori e declamare mille paradigmi senza saper poi costruire un discorso intelligente su un testo o un fenomeno, e saranno necessari altri tipi di prove per saggiare queste abilità, ma è difficile costruire ragionamenti critici sull'ignoranza dei dati basilari. Scomposti per regione, i risultati sono anch'essi interessanti, perché si nota un forte parallelismo rispetto ai risultati dei test Pisa e appunto di quelli Invalsi. Tutto frutto di coincidenze statistiche o di stress da esami? Può anche darsi, ma prima di derubricare il problema non sarebbe male avviare qualche analisi ulteriore.
È utile ricordare che i test standardizzati non sono necessariamente a risposta chiusa, ma possono prevedere anche risposte libere, come nella seconda prova del concorso per insegnanti. Sono, però, appunto, standardizzati, cioè unici per tutti i candidati, suddivisi in sezioni, e contengono prescrizioni abbastanza dettagliate, per esempio, sulla lunghezza della risposta. I vantaggi di questa forma di esame, già a partire dall'università, è evidente: garantisce a tutti lo stesso trattamento, offre al docente la possibilità di calibrare con cura, in anticipo, il grado di difficoltà delle domande, consente l'attribuzione ponderata dei voti sulla base del confronto tra gli elaborati, che restano anonimi. Questo tipo di esame è diffuso nelle nostre facoltà scientifiche, assai meno in quelle umanistiche, dove si continua a preferire di gran lunga l'esame orale, che in cambio del presunto vantaggio di poter "far ragionare" lo studente in presa diretta (come se per iscritto non si potesse ragionare...) presenta tutti i difetti che l'esame scritto cerca di evitare, primo fra tutti quello di una valutazione impressionistica. Se gli esami scritti fossero più diffusi all'università diminuirebbe probabilmente l'avversione per forme di valutazione simili nelle scuole.

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