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Questo articolo è stato pubblicato il 07 luglio 2013 alle ore 08:36.
L'ultima modifica è del 07 luglio 2013 alle ore 14:43.

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Dobbiamo capirla bene la lezione che viene dall'Egitto, perché ha implicazioni che vanno ben oltre il destino di questo Paese, peraltro importantissimo. Che non sia stato il solito golpe militare lo hanno capito tutti, perché tutti hanno visto la straordinaria partecipazione popolare alla protesta contro il presidente Mohamed Morsi, tanto da far sembrare l'intervento dell'esercito come una sorta di coronamento della stessa protesta.
Ma già questo mette in luce un errore che va evitato, quello di ritenere che l'esperienza di questi giorni condanni la "democrazia islamica" ad essere un ossimoro impraticabile e produca perciò una lezione formulabile solo così (e qualcuno così l'ha formulata): «Se, in nome della democrazia, ti rimetterai al voto nei Paesi islamici, li farai cadere nelle mani di chi la democrazia comincerà a negarla e a eroderla dal giorno dopo. Sarai fortunato se avrai almeno un esercito che ti darà una mano ad uscirne». Una lezione davvero cupa che, per una situazione come quella egiziana, escluderebbe nel breve e nel medio termine qualunque evoluzione democratica, dal momento che l'Egitto è un Paese all'80% islamico.

Ebbene io non penso che sia così, giacché, pur consapevole delle robuste propensioni integraliste esistenti nel mondo islamico, ritengo che la partita sia aperta e che occorra fare il possibile e l'impossibile perché riesca a prevalere in quel mondo chi tali propensioni non solo non le nutre, ma le combatte e non da oggi. Non so quanti dei miei lettori conoscono Abu Zayd, un piccolo grande uomo che fu professore proprio in Egitto, dove era nato, e che dovette andarsene con sua moglie Ibtihal, perseguitati entrambi in nome della Sharia. Abu Zayd apparteneva a quella schiera di intellettuali islamici, che si battono per una lettura del Corano, sottratta alle devianze affermatesi nei secoli dell'oscurantismo e usate, in genere, per fornire un fondamento a poteri autoritari e assoluti.
Fu accusato per questo di apostasia (l'accusa venne dalla sua stessa Università), fu condannato in giudizio e un corollario della condanna fu un decreto di divorzio da sua moglie: la sharia non consente a una donna musulmana di essere sposata con un apostata, che è equiparato a un non musulmano. Era il 1995 quando Abu Zayd lasciò con Ibtihal il Cairo. Approdò poi in Olanda, all'Università di Leiden, dov'è rimasto sino alla morte prematura.

Che cosa prova il caso di Abu Zayd? Prova che si può essere e restare islamici rivendicando, sul terreno della democrazia, non solo la legittimazione elettorale, ma anche i principi di libertà, di tolleranza e di rispetto reciproco. E prova inoltre che, così facendo, non si è soli nel proprio mondo, ma si finisce per trovarvi solidarietà e alleanze. Giova qui ricordare che, mentre la Corte d'Appello dichiarava nullo il matrimonio di Abu Zayd e di sua moglie, l'Università del Cairo decideva di promuoverlo professore ordinario, apprezzando il suo lavoro critico e definendolo un libero pensatore, che aspirava solo alla verità.
La domanda che ci dobbiamo porre è dunque, in primo luogo, quanti sono stati gli islamici, non diversi da Abu Zayd e dai suoi colleghi allora a lui favorevoli, che hanno alimentato nei giorni scorsi la protesta contro Morsi. Non dovevano essere pochi fra i venti milioni di egiziani coinvolti - a quanto si è letto - nelle manifestazioni antigovernative al Cairo e altrove. È certo vero che si è trattato di manifestazioni con una forte, e non nuova, motivazione economico-sociale, ma questa ha fatto da collante di ostilità di altra natura, cresciute via via contro Morsi: per la violenza a cui tante donne sono rimaste esposte senza difesa, per quella di cui sono stati vittime ripetutamente i copti, anch'essi indifesi, per il trattamento riservato agli oppositori.

La verità è che già la Costituzione, voluta da Morsi e poi convalidata con referendum, aveva destato parecchie critiche: perché adotta l'Islam come religione dello Stato e fa dei principi della sharia i principi fondamentali del sistema legislativo; perché dà rilievo costituzionale all'università islamica Al-Azhar, consacrandola come l'interprete per eccellenza della legge islamica; perché costituzionalizza il reato di «insulto od abuso verso tutti i profeti e i portatori del messaggio religioso».
C'erano già in una Costituzione del genere tutte le premesse per una visione e un uso integralista del potere pubblico. Non dimentichiamo che fra le partite aperte nel mondo islamico c'è quella della laicità dello Stato e quindi della distinzione fra ciò che va dato a Dio e ciò che va dato a Cesare. Per gli integralisti questa è una distinzione che non ha senso e il sol fatto che l'Islam sia proclamato religione di Stato in un Paese nel quale sono essi a prevalere, porta conseguenze che diventano inesorabili, perché non lasciano spazio, nella sfera pubblica, a voci diverse e vedono «l'insulto o l'abuso» in qualunque voce critica.

Questo è ciò che è accaduto in Egitto e la verità che ci ha messo davanti la stagione di governo della Fratellanza Musulmana è che essa non aveva maturato in sé i paradigmi culturali della democrazia. Rivendicava l'originalità della democrazia islamica ma sotto la formula celava un assetto nel quale l'aggettivo era destinato a sovrastare e soffocare il sostantivo. È importante però che i paradigmi che le sono mancati non li dovesse attingere dalla cultura occidentale, ma li avesse in casa. Erano nella antica tradizione islamica e sono oggi non solo in Abu Zayd, ma nei tanti che, come lui, se ne sono fatti interpreti fra gli islamici del nostro tempo. Si pensi all'iraniano Abdolkarim Soroush, che non ripudia affatto la democrazia religiosa, ma nega che possa comportare costrizioni in materia di fede e fa l'elogio del pluralismo religioso, nel quale si specchia «l'invisibile pluralità delle anime». Il che porta lui e chi la pensa come lui a quanto scrive Tahar Ben Jelloun: «L'Islam resti nei cuori e nelle moschee; la scena politica non gli si addice».

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