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Questo articolo è stato pubblicato il 11 agosto 2013 alle ore 13:48.

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Nei periodi peggiori delle crisi economiche, l'incapacità di governarle mette sovente a repentaglio le basi stesse delle democrazie liberali. La ragione sta nello stretto collegamento che trasforma e converte la sfiducia dal mondo della finanza, ritenuto il vero responsabile delle crisi, alle stesse istituzioni civili e politiche, coinvolgendo i diritti fondamentali dei cittadini.

Questo diffuso malessere sfocia poi a volte in aperte contestazioni, altre volte in critiche vivaci e apodittiche e talora violente contro i poteri delle democrazie. E son reazioni che si sviluppano attraverso facili quanto falsi e distruttivi slogan in Paesi che pur presentano diversità di soluzioni e capacità di argini alle derive antidemocratiche. La comparazione, a parer mio, al momento più efficace sembra quella fra l'Italia e gli Stati Uniti d'America.
La traslazione di principi in slogan che tendono a far dimenticare o cancellare l'impianto della Carta Costituzionale appare evidente quando, ad esempio, a sostegno di ogni distorta argomentazione, si cita l'art. 1 della Costituzione italiana, il quale sancisce che «la sovranità appartiene al popolo», in una interpretazione tale da far scomparire la struttura dell'intero ordinamento, il quale prevede che i poteri fondamentali dello Stato si articolino in Legislativo, Esecutivo e Giurisdizionale. È pur vero che la sovranità appartiene al popolo, ma è il popolo stesso che ha posto alla base del contratto sociale l'ordinamento costituzionale e l'equilibrio di quei poteri, che garantiscono e tutelano i suoi diritti fondamentali. È dunque il primo pericolo portato alla Repubblica il ritenere che chi è stato eletto col voto popolare possa disconoscere di volta in volta, in balìa di derive autoritario-distruttive, ogni altro potere dello Stato. Le attuali scomposte contestazioni ad attività giurisdizionali e gli indiscriminati attacchi ai giudici, perché non eletti dal popolo, in nome del quale peraltro amministrano la giustizia (art. 101), sono sicuri quanto pericolosi fenomeni che possono alimentare una deriva antidemocratica perché mettono a rischio l'ordinamento costituzionale e quindi il nostro contratto sociale e i diritti dei cittadini in esso contenuti.

N on che le sentenze dei giudici non possano essere criticate, dacché il giudice non è come lo descriveva Montesquieu "la bouche de la loi" o, come sosteneva Beccaria, "un semplice applicatore di sillogismi". La giurisprudenza ha, invece, nelle democrazie liberali, una funzione creatrice del diritto attraverso l'interpretazione delle norme che, ispirate alla Grundnorm, come la chiamava Hans Kelsen, sono frutto della storia e della tradizione della cultura sociale, politica ed economica del Paese. E neppure debbono essere risparmiate a volte ironiche critiche, come suggerisce Piero Calamandrei nel magnifico libro, L'elogio dei giudici, che tuttavia non prescinde da una totale e indiscriminata difesa delle loro funzioni e della loro indipendenza. La diversità di tradizioni giuridiche e il maggior rilievo che hanno le decisioni delle Corti negli Stati Uniti, non debbono trarre in inganno. È pur vero che, più che da noi, la funzione creatrice della giurisprudenza, è determinante per la soluzione dei conflitti sociali ed economici. Mi basterà ricordare lo scontro fra il potere esecutivo e quello giurisdizionale durante l'esperienza del "New Deal" messa in atto dal Presidente F.D. Roosvelt per risolvere la lunga grande depressione del 1929.

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