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Questo articolo è stato pubblicato il 18 agosto 2013 alle ore 13:55.

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Delle vicende egiziane avevo scritto qui ai primi di luglio. Avevo concluso con la speranza che non finisse in un bagno di sangue e con la fiducia che la democrazia islamica non dovesse rivelarsi nulla più che un ossimoro. Ora la mia speranza è caduta, perché al bagno di sangue ci siamo arrivati. Deve cadere anche la mia fiducia in una possibile democrazia islamica, perché siamo al fallimento dell'islamismo moderato, come titolava un articolo di Roberto Toscano su La Stampa di giovedì scorso?

È difficile non concordare oggi con quanto ha affermato il Presidente Obama, quando ha denunciato tre giorni fa le violenze egiziane. È vero che Mohammed Morsi era stato eletto Presidente con elezioni democratiche, ma è anche vero – ha aggiunto Obama – che il suo governo non è riuscito ad essere inclusivo né ha impostato il rapporto con coloro che ne erano fuori su binari rispettosi dei loro diritti. La democrazia si misura su questo terreno, non meno che su quello delle elezioni, e qui - lo notavo io stesso nell'articolo ricordato all'inizio - i paradigmi non democratici presenti nella cultura dei Fratelli Musulmani egiziani hanno giocato un ruolo vistoso.
C'è da chiedersi tuttavia se sia interamente dovuta alle loro colpe la reazione, anche popolare, che ha posto fine al loro governo. E la durezza con la quale i militari li stanno trattando porta a una lettura retrospettiva dei fatti non necessariamente a senso unico. Va intanto ricordato che il Morsi iniziale non aveva manifestato intenti chiusi e integralisti. Ma si è trovato, da una parte una elite liberal democratica che alle spalle non aveva alcuna vera organizzazione politica, ma quei tanti e disparati filamenti utili a trovarsi anche più volte in piazza, non a formare il consenso politico che deve assistere con continuità un governo. Dall'altra si è trovato forze armate molto legate, in realtà, al vecchio establishment, che hanno assecondato e sostenuto l'ostilità e la resistenza da questo messe in campo nei confronti di ogni cambiamento.

È ben vero che al proprio vertice supremo i militari hanno collocato un generale di notoria e professa fede musulmana come Abdul Fattah al Sisi. Ma c'è da chiedersi oggi se lo hanno fatto per suscitare la fiducia dei Fratelli Musulmani ovvero nell'aspettativa di soppiantarli nel rapporto diretto con le masse islamiche. Certo si è che a un certo punto i Fratelli Musulmani possono essersi sentiti accerchiati e in pericolo e al loro interno è prevalsa l'ala più dura, che ha spinto Morsi a far fuori gli altri prima che gli altri facessero fuori lui. Ne è uscita quella disgraziata dichiarazione costituzionale mirante a subordinare al Presidente la stessa Corte Costituzionale, ne è uscita la mano libera contro i copti, ne è uscita la persecuzione a tappeto degli oppositori.

Quando i militari hanno deciso che era tempo di reagire, venti milioni di egiziani erano già pronti a sostenerli. Non so quanta realtà vi sia, e quanta fantapolitica, in questa ricostruzione, che devo peraltro non alle mie personali deduzioni, ma a chi l'Egitto lo conosce assai meglio di me. Certo si è che, a questo punto, i fatti sembrano dar ragione all'analisi appena pubblicata da Steven Cook sul sito di Foreign Policy: i protagonisti della vita politico-istituzionale egiziana non si riconoscono l'uno con l'altro e chi vince finisce per puntare a un assetto che gli garantisca il potere esclusivo. Col che, alla lunga, soltanto i militari o i grandi dittatori ad essi legati riescono a farcela con adeguata stabilità. È questo il destino dell'Egitto di domani, è l'incoronazione del generale Al-Sisi? Ma si può restaurare il tempo di Nasser o del primo Mubarak in un mondo arabo nel quale già in queste ore preme tutt'intorno la solidarietà per la Fratellanza, prefigurando quell'effetto domino di cui ha scritto ieri Alberto Negri? Personalmente non lo credo e se il generale Al-Sisi ci dovesse provare, il sangue di questi giorni lo accompagnerebbe per il resto del suo mandato. Io non escludo che quella diversa parte del mondo arabo che oggi finanzia le forze armate egiziane con dieci volte i miliardi di fonte americana, le voglia nel ruolo di braccio armato con il compito di sterminare la Fratellanza.

Ma perseguire questo compito significa trasformare la stessa Fratellanza in un movimento sempre più estremista, con frange e connessioni terroriste che finirebbero per dare all'Egitto un destino peggiore di quello algerino, con attentati, sequestri. Uccisioni. Generalizzata insicurezza ed elezioni sempre più distanziate, o sempre più manipolate, per evitare sorprese. Non lo reggebbero i liberali egiziani, non lo reggerebbe l'economia, che vive di turismo e ha assoluto bisogno di pacificità e sicurezza, non lo reggerebbe il mondo circostante a partire da noi europei. Si può ancora evitare uno scenario del genere? Si può cominciare, certo, con gli appelli a porre fine alla violenza e mi rendo conto che in una prima reazione nè il Consiglio di Sicurezza né gli europei potevano andare molto al di là. Ma è evidente che gli appelli non bastano e neppure le minacce di tagli agli aiuti, se non sono accompagnate dalla promozione di prospettive di governo che creino robusti antidoti contro la violenza. Ed oggi di prospettive del genere ce n'è una sola, quella -diremmo noi- di un governo di larghe intese, perseguito, non con gli inviti rivolti dai militari alla Fratellanza dopo l'arresto di Morsi (che li rendeva ovviamente inaccoglibili), ma con effettiva e credibile determinazione, manifestata, fra l'altro dalla liberazione dello stesso Morsi.

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