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Questo articolo è stato pubblicato il 17 settembre 2013 alle ore 07:04.
L'ultima modifica è del 17 settembre 2013 alle ore 07:35.

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Se le banche ti chiudono i fidi, che tu sia un amministratore delegato o un commissario cambia poco. Se la magistratura sequestra la liquidità dell'impresa e blocca il circolante diventa difficile pagare fornitori e lavoratori: per un manager e per un commissario. Non può essere il commissariamento la strada per sbloccare il drammatico stallo in cui sono precipitati gli impianti non-Ilva della famiglia Riva a causa dell'ennesimo sequestro preventivo (senza facoltà di uso) preteso dai magistrati di Taranto come garanzia per eventuali, futuri risarcimenti di danni causati all'ambiente pugliese dallo stabilimento Ilva. «Qui il lavoro c'è, non serve la Cig»: gridavano al paradosso gli striscioni esposti ieri dai lavoratori in agitazione nei sette siti produttivi bloccati nel Nord Italia. All'errore di aver contrapposto il diritto inviolabile alla salute e alla vita a quello altrettanto sacro del lavoro, si rischia di aggiungere un altro errore: quello di mettere in discussione anche il diritto alla libertà d'impresa. Un ulteriore chiarimento tra azienda, custode giudiziale e magistrati tarantini è il benvenuto. Soprattutto se avrà saggezza e buonsenso come bussola.
In gioco il futuro di 1.400 lavoratori e rispettive famiglie in un tempo in cui la disoccupazione supera il 12% e quella giovanile martirizza 4 giovani su 10; non sanno spiegarsi quale mai sia il senso di un sequestro che riduce in perdita e blocca imprese sane e profittevoli invece di indicarle a modello.

Parliamo di aziende, non di persone per le quali la responsabilità (penale o civile) resta legittimo oggetto di indagine della magistratura e obiettivo finale delle valutazioni del processo.
Questo sequestro prosciuga la liquidità di stabilimenti sani (forni elettrici divoratori di rottame per dare forma a bramme e billette) che, tra l'altro, avevano dovuto rinegoziare i contratti con fornitori diversi dall'Ilva, bloccata dall'azione dei magistrati tarantini, pagando anche prezzi più alti per i materiali di base.
Ci si trova di fronte a un frustrante iper-formalismo, a una pervicace sottocultura della legittimità amministrativa tout court, dove la congruità dell'atto formale diventa un totem slegato dal mondo, dalla vita, dalla verità. L'inno di questa corrente di pensiero è: l'adempimento è a norma di legge.
N on importa se, ad esempio, le direttive europee hanno più volte precisato che il "sequestro per equivalente", per supposto danno ambientale non è atto automatico (e, soprattutto, è ben poco praticato in casi simili negli altri Paesi competitor). Non importa se la inevitabile discrezionalità del giudice è il sale del «diritto vivente».

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