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Questo articolo è stato pubblicato il 04 dicembre 2013 alle ore 06:38.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 10:59.

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Oggi Coldiretti organizza la sua ormai tradizionale manifestazione al Brennero in difesa di quello che loro considerano il "made in Italy". Come ogni anno bloccheranno qualche camion, scandiranno i loro slogan.

Emetteranno qualche comunicato con un po' di numeri (che tanto nessuno controlla). E come ogni anno tutto questo finirà e l'alimentare made in Italy continuerà con la sua crisi.
Questo perché Coldiretti ha un'idea molto di parte di cosa vuol dire "made in Italy" e, di conseguenza, immagina solo soluzioni protezionistiche che danneggerebbero la nostra produzione agroalimentare, già pesantemente colpita dalla crisi.
Andiamo con ordine: in primo luogo, cosa vuol dire "made in Italy"? Cosa è il famoso "cibo italiano" che tutti ci copiano?
Secondo quanto stabiliscono le norme internazionali in materia, è made in Italy (letteralmente "fatto in Italia") ciò che ha subito «l'ultima trasformazione sostanziale» nel nostro Paese: una definizione burocratica che, tuttavia, si adatta perfettamente all'essenza profonda del made in Italy alimentare.

Come noto, infatti, il nostro Paese è – anche nel food – un grande Paese trasformatore che, a parte in qualche settore, è strutturalmente in deficit di materie prime. Moltissimi prodotti simbolo dell'Italia sono il risultato della capacità dei produttori di selezionare le materie prime provenienti sia dal mercato nazionale sia dall'estero, visto che queste in casi non marginali non vengono prodotte in Italia (ad esempio caffè, cacao, ecc..) o sono carenti quantitativamente o qualitativamente. Per fare qualche esempio, in Italia viene importato il 40/45% del latte, il 50/60% del grano tenero, il 30/40% del grano duro, la metà dei cereali per i mangimi (tra cui il 90% della soia), il 40% della carne bovina e suina.
La produzione nazionale di materie prime agricole è importante. Se escludiamo quanto va al consumo diretto, l'industria alimentare italiana la acquista e la trasforma tutta. Purtroppo la produzione nazionale è al tempo stesso strutturalmente insufficiente per un'industria di trasformazione che – con il suo successo – è il vero fautore del made in Italy alimentare nel mondo. Non è un caso che la bilancia commerciale dei prodotti alimentari trasformati è in attivo per 6 miliardi di euro, mentre quella delle materie prime è in passivo.

Peraltro – nonostante Coldiretti si dimentichi di segnalarlo – la stessa agricoltura utilizza moltissime materie prime provenienti dall'estero: dalle sementi (e dal materiale vegetale da riproduzione) per frutta e verdura, di cui si sono importate l'anno scorso l'incredibile cifra di oltre 1 milione 200 mila tonnellate – dieci volte il peso totale dei salumi esportati – ai cereali per mangimi. Quindi qualcuno dovrebbe spiegare perché, come ci dicono gli allevatori, un suino nato in Italia da una scrofa importata dalla Danimarca, con un patrimonio genetico nordeuropeo (Large White, Duroc, Landrace), che ha mangiato tutta la vita soia sudamericana e mais dell'Est Europa è da considerarsi 100% italiano (e va bene per fare i prosciutti Dop). Così come un pomodoro cresciuto in Italia da una piantina importata dalla Germania e basata sulla ricerca genetica olandese o israeliana, o il mais coltivato in Italia con i semi provenienti dagli Stati Uniti.

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