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Questo articolo è stato pubblicato il 04 dicembre 2013 alle ore 06:38.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 10:59.

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In questo contesto, assistiamo in questi ultimi tre anni a una drammatica crisi dell'agroalimentare italiano, in particolare per quel che riguarda i consumi interni. Nel 2012 il taglio in valore reale, al netto dell'inflazione, è stato di 3 punti, che si sono aggiunti ai 7 punti accumulati nei cinque anni precedenti. Una situazione che non aveva precedenti nella storia d'Italia dal dopoguerra. Nel primo semestre 2013 le vendite alimentari segnano un -1,9% su indici grezzi e un -1,6% su indici destagionalizzati.

L'alimentare, da sempre considerato un settore anticiclico, sta quindi subendo in maniera pesante questa crisi. Anche perché con le esigue marginalità che contraddistinguono il settore, cali di vendite di pochi punti percentuali – protratti per più anni – mette in crisi tutta la filiera. Anche perché negli ultimi anni la crescita dell'export, che compensava i cali interni con vendite a più alta marginalità, si è attenuata a causa della crisi internazionale. Così si comprende perché – a differenza di quanto si sente dire – non c'è nessun effetto sostituzione di materie prime nazionali con materie prime estere: l'import di derrate agricole è calato nel 2012 del 10% in quantità e del 5% in valore (mentre i primi mesi del 2013 mostrano solo un lieve rimbalzo).

A fronte di questi problemi, la risposta di Coldiretti è un rigurgito protezionistico: bloccare le frontiere e accusare di truffa tutto ciò che non è prodotto con materie prime italiane. Non c'è niente di più sbagliato.
Troppo spesso ci culliamo nella convinzione che i nostri prodotti sono i migliori del mondo, che basta dire made in Italy per avere successo.
Purtroppo non è così: i due grandi esempi di etichettatura d'origine obbligatoria (della carne bovina e delle materie prime usate nella produzione di olio extra vergine di oliva) non mostrano – nei fatti – uno spostamento significativo dei consumi verso i prodotti italiani o prodotti con materia prima nazionale, né una maggior marginalità per quelle filiere. Mentre dal punto di vista della qualità, per fare l'esempio di un settore che conosco bene, la nostra suinicoltura ha molto da imparare sotto il profilo veterinario da quelle del nord Europa: le mancanze dei nostri allevatori in questo campo danno infatti la scusa a molti paesi extra Ue per impedire le esportazioni di carne suina e salumi, con un danno per la filiera che abbiamo quantificato in almeno 250 milioni di euro l'anno.

L'agroalimentare italiano avrà un futuro se – invece di inseguire derive protezionistiche inattuabili dato il nostro deficit strutturale – sarà in grado di produrre qualità a prezzi competitivi con i concorrenti internazionali e di portare questa produzione sui mercati esteri, superando le barriere tariffarie e non tariffarie che ancora limitano il nostro export. E questo vale sia per l'industria sia per l'agricoltura.
Su questo, passata l'ennesima giornata al Brennero, si dovrebbe concentrare l'azione degli imprenditori, delle organizzazioni di rappresentanza e del Governo: provando a fare sistema su obiettivi di sana e duratura crescita competitiva per la produzione alimentare italiana.

Lisa Ferrarini è presidente di Assica
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