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Questo articolo è stato pubblicato il 16 febbraio 2014 alle ore 09:20.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 12:07.

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E così, anche il progetto di scambio di informazioni in materia fiscale, in discussione da tempo, fra la Commissione e il Governo svizzero, con l'inevitabile scomparsa dell'odioso segreto bancario, è destinato a spegnersi. Su questi problemi i ministri degli esteri dei 28 Paesi riuniti a Bruxelles, dovrebbero iniziare a discutere da domani, dopo la prima immediata, non certo tenera reazio-ne.
Ma all'interno della Ue si presentano altre e ancor più pericolose forze centrifughe. Il caso di maggior rilievo e forse il più trascurato è quello della possibile disgregazione del Regno Unito, proprio al momento, se sono vere le previsioni della Banca d'Inghilterra, in cui l'economia dell'Uk raggiunge un aumento del 3,4%, paragonandosi alle ormai passate star dei Paesi emergenti. Eppure, il Regno Unito costituisce, all'interno, il più inquietante problema di questa travagliata Europa.

Infatti, nell'autunno di quest'anno sarà indetto un referendum per decidere sulla creazione di uno Stato scozzese sovrano, autonomo e indipendente, attualmente nel programma fortemente sostenuto dal partito di maggioranza. Significherebbe semplicemente la scomparsa del nobile e regale Regno Unito. Ma il futuro della Scozia non riguarda solo la durata dell'Uk, le cui corone furono unificate nel 1603 e i Parlamenti di Londra ed Edimburgo fusi nel 1707, poiché è destinato a riverberarsi sull'intera Europa, sulla sovranità, sulla governance e sull'esistenza stessa del Superstato, creando un pericoloso precedente. Sembra invero che il Regno Unito abbia perso ogni identità: una monarchia diventata una federazione, sognando di essere uno Stato unitario, e che nel sogno semplicemente svanisce. Passerebbe così, in secondo quanto inutile piano, il referendum promesso entro la fine del 2017 dal premier Cameron per approvare le eventuali condizioni poste per la permanenza del Regno Unito all'interno dell'Unione europea.

Per quel che riguarda la Germania, la situazione non pare recentemente cambiata, neppure di fronte alla sentenza della Corte Costituzionale di Karlsruhe, sulle varie questioni riguardanti il sistema europeo delle Banche centrali, l'Esm e il Fiscal Compact, poiché ogni decisione è rinviata al 18 marzo 2014, mentre i programmi non risultano minimamente cambiati rispetto alla tradizionale decisa politica di un'Europa tedesca.
La Francia invece presenta una situazione peculiare, dovuta a due fenomeni. Più di un terzo dei francesi, nei sondaggi, segue con passione la candidata dell'estrema destra antieuropeista, Marine Le Pen, la quale ha accolto con scomposte manifestazioni di gioia il risultato del referendum svizzero. Ma il presidente Hollande? Sconcertanti appaiono i suoi costanti riferimenti alla sovranità nazionale al di fuori dei problemi europei.

In un tagliente articolo apparso recentemente sul New York Times, Paul Krugman, dopo aver fornito un quadro preciso della crisi economica, esamina i piani pubblicamente dichiarati dal presidente Hollande per cambiare la Francia. Il suo programma, di ridurre le imposte sugli affari e adottare indiscriminati tagli di spesa, è stato accompagnato da dichiarazioni teoriche a dir poco sconcertanti, quale quella che: «È nell'offerta che bisogna agire, poiché è l'offerta che crea la domanda». Ricorda Krugman che questa è la sintesi dell'ormai screditata legge di Say, la quale risulta ancor più erronea nella Francia del 2014, dove lavoro e capitale giacciono inattivi poiché la domanda è inadeguata. La conclusione è che le classi politiche europee (e che dire della nostra?) sono risultate vittime rassegnate dell'ideologia e della politica dell'austerity e sono finite in preda ad un collasso intellettuale.

Contro questo sostanziale antieuropeismo asociale un gruppo di grandi personalità della cultura francese (Eiffel Europe) ha reagito proponendo la creazione di una "communauté politique de l'euro" in parallelo con le tesi del "Glienicker Gruppe" tedesco, nonché con diverse iniziative, anche italiane, di vario genere, che stanno sorgendo in questa direzione, in una larga parte dell'opinione pubblica europea.
In conclusione, una cosa è certa e cioè che la ripresa dell'Europa ha un senso se insieme a un rafforzamento istituzionale democratico la politica economica e finanziaria subisce un radicale cambiamento, sicché, abbandonata la frenetica fissazione del debito, si orienta verso la tutela dei diritti, la lotta alla disoccupazione, l'abbandono dei vetusti canoni del neoliberismo, riprendendo le fondamentali tradizioni di civiltà europea per ridurre le disuguaglianze sempre crescenti e poter costituire così anche un punto di riferimento globale.

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