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Questo articolo è stato pubblicato il 16 marzo 2014 alle ore 14:06.
L'ultima modifica è del 16 marzo 2014 alle ore 19:33.

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Ci provano, a Simferopoli, ad attendere il gran giorno con un'aria di festa, la gente che passeggia nel sole e l'immancabile concerto a squarciagola sulla piazza del Sovmin, il Palazzo del governo. All'interno, dietro l'altrettanto immancabile cordone cosacco, Serghej Aksjonov presenta questa sua Crimea che nasce oggi a cinque giornalisti stranieri.

L'uomo voluto qui dalla Russia ma che - dichiara - non ha mai parlato con Vladimir Putin vuole apparire rassicurante: sia sulle strane circostanze che in pochi giorni lo hanno messo al volante di questo addio all'Ucraina, sia su quello che avverrà qui da ora in poi, sulla strada per Mosca. «Questa è zona di guerra solo per i canali tv ucraini», dice il premier.
A New York, sabato sera, la Russia si è trovata isolata al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che ha votato una risoluzione secondo cui il referendum di Crimea «non può avere validità»: soltanto Mosca ha posto il veto, la Cina si è astenuta in questo invito a nazioni e organismi internazionali a non riconoscere il voto di oggi.

«Che farete - chiediamo ad Aksyonov - se le pressioni internazionali dovessero convincere Putin a non accogliervi nella Federazione Russa?». «Io non credo possa succedere! - risponde -, quali sono le giustificazioni per le sanzioni? Qui c'è solo una maggioranza di cittadini che sceglie in modo pacifico senza guerre, senza morti né feriti, senza disordini di massa. Quanto a Kiev, sono stati loro a infiammare la situazione. Io mi sarei seduto con loro proponendo un'ampia collaborazione con cittadini e regioni di lingua russa. Ma invece di proposte costruttive abbiamo ricevuto solo minacce e isterismi, e leggi russofobe. Dovevano almeno mettersi in contatto con noi, ma a me non mi ha chiamato proprio nessuno, neanche un solo funzionario di Kiev. Fatevi mostrare il tabulato telefonico. Solo minacce».

Così inizia il racconto dei cinque giorni di febbraio che hanno condotto improvvisamente la Crimea allo strappo con l'Ucraina e Aksjonov, fino ad allora leader 41enne e poco conosciuto di un partito con soli tre seggi in parlamento al ruolo di prescelto da Mosca per pilotare la svolta, una volta presa la decisione che, se Kiev era persa, bisognava andare all'offensiva in altre parti dell'Ucraina. Perché proprio lui? «Non aspiro alla gloria - dice Aksjonov - non pretendo allori. Nessuno voleva fare il premier: tutti scappavano, non era rimasto nessuno, che dovevo fare, scappare anche io? Ho deciso di prendere la responsabilità su di me».

Forse una delle credenziali, agli occhi di Putin, è che Aksjonov è un vero orfano dell'Urss. Nato in Moldavia, figlio di un leader separatista della Transdnistria, fa parte delle persone colte alla sprovvista dal crollo del mondo sovietico, rimaste come senza patria. «Sono entrato nell'esercito per convinzioni patriottiche - racconta - io ero sostenitore dell'Unione Sovietica. C'era molto di buono: pochi mezzi economici ma garanzie sociali. E non c'era il divario di oggi tra ricchi e poveri».

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