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Questo articolo è stato pubblicato il 24 aprile 2014 alle ore 07:49.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:16.
Nel 2004 la Fiat era quotata 6 miliardi di euro. Dieci anni dopo, nonostante la crisi economica e quella ancora più disastrosa dell'auto, in Borsa capitalizza (Chrysler esclusa) 9 miliardi. Non basta: i ricavi di Fiat e Chrysler insieme, pari a 87 miliardi di euro, sono cresciuti nel 2013 del 3 per cento in termini nominali e del 7 per cento a cambi costanti e le consegne di vetture hanno segnato un +3 per cento sul 2012, salendo a 4,4 milioni di unità. I numeri non tradiscono mai. Basterebbero solo questi dati a dimostrare che il dirigente di origini abruzzesi, figlio di un maresciallo dei carabinieri, non è l'ultimo micco.
Sistemate le cose, Marchionne alzò lo sguardo da Torino puntandolo sugli States, dove le fabbriche di vetture erano allo stremo. E con il capitale Fiat entrò nella scassatissima Chrysler. Qualcuno gli diede del matto. Invece lui aveva capito tutto: o le aziende, in piena globalizzazione, hanno dimensioni internazionali e si buttano alla conquista del mercato mondiale, o rischiano una brutta sorte. Ora la Chrysler è una potenza ed è tutta sua. Fattura 68 miliardi di dollari e ne fa 5 di utile operativo, con i quali il ramo secco italiano della Fiat è tenuto in vita, malgrado perda molti soldi.
Il mercato europeo è fiacco, quello di casa nostra è moribondo, calato ai livelli degli anni Sessanta. In una fase simile, ovvio che Marchionne non si azzardi a fare investimenti da queste parti. Significherebbe gettare al vento parecchio denaro, assodato che le vacche magre continueranno a essere tali anche nei prossimi anni. Produrre nuovi modelli all'altezza della concorrenza non servirebbe a stimolare gli acquisti, poiché la gente ha pochi soldi nelle tasche – alleggerite da prelievi fiscali senza uguali sul globo terracqueo – e quei pochi non li spende di sicuro per cambiare la macchina.
Va da sé che non sono tempi di rilancio. Cara grazia che Marchionne non abbia deciso di chiudere le fabbriche esistenti, come la logica del profitto, l'unica valida nell'economia di mercato, suggerirebbe. Nonostante ciò, la Fiat è accusata di non mantenere i patti stretti alcuni anni fa con i sindacati, i quali non sembrano rendersi conto che nel frattempo la situazione del Paese è precipitata e non consente ottimismi nel breve e medio periodo.
Cosicché Marchionne subisce una sorta di linciaggio: attaccato da tutti, da destra e da sinistra, addirittura da alcuni imprenditori con il dente avvelenato e immemori degli aiuti che gli Agnelli ebbero dallo Stato per anni e anni.
L'Avvocato, venerato, vezzeggiato, imitato, promosso re d'Italia dai media, ci provava sempre, quando era in difficoltà: bussava alle porte del Palazzo e queste si spalancavano. Inchini e salamelecchi. Egli faceva presenti le necessità dell'impresa torinese e i politici scucivano. Quiz: chi era il cretino? Agnelli che incamerava o i politici che sganciavano?
In un Paese liberale non sarebbe mai accaduta una cosa del genere. Ma il nostro non lo è mai stato e non lo è ancora, tant'è vero che siamo qui a leggere che Marchionne è un mascalzone solo perché non sperpera quattrini per far funzionare stabilimenti perennemente in perdita. Lo accusano di produrre nuovi modelli all'estero anziché in Italia. E ti credo. Se li producesse qui, per poi esportarli, i prezzi sarebbero pazzeschi, proibitivi per qualunque mercato al mondo.
Gira e rigira, emerge sempre il problema dei costi di produzione e di quelli derivanti dalle ostilità ambientali. Da noi i salari sono elevati, ma gli operai, per effetto del cuneo fiscale, percepiscono paghe da fame. Inoltre i posti di lavoro sono infestati di estremisti la cui attività talvolta è ai limiti del boicottaggio. Sorvoliamo sull'assenteismo, non solamente in coincidenza con le partite della nazionale di calcio.
Marchionne ha detto la verità, e in Italia chi dice la verità è maledetto da tutti e rischia di venire ucciso: siamo rimasti con la testa agli anni Settanta, quando il padrone era considerato un nemico, negli stabilimenti comandavano le Brigate rosse e i sindacati dominavano le coscienze deboli, costringendo il personale più responsabile a organizzare la marcia dei 40.000 per opporsi allo strapotere dei facinorosi.
Abbiamo ancora la Cgil sulle barricate. Abbiamo ancora lo Statuto dei lavoratori che protegge i fannulloni. Abbiamo ancora i contratti collettivi. Abbiamo ancora magistrati politicizzati che emettono sentenze in nome del proletariato. Abbiamo ancora a che fare con gli scioperi generali. In un Paese così, l'industria non ha la possibilità di sopravvivere, e in effetti non attira più investimenti stranieri. Ovvio, chi si fida di un sistema di questo tipo, sgangherato e sregolato? Restare con un piede in Italia per la Fiat è un lusso: non se lo potrà permettere ancora a lungo. Voto: 9
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