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Questo articolo è stato pubblicato il 10 maggio 2014 alle ore 08:30.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:31.

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A leggere il nuovo autorevole libro di Thomas Piketty Capital in the Twenty-First Century si conclude che il mondo non era così iniquo dai tempi di re e baroni ladri. Strano perché stando a un altro libro eccellente, The Great Escape di Angus Deaton (che ho recensito di recente), il mondo non sarebbe mai stato così equo. Allora chi ha ragione? La risposta cambia che si guardi ai singoli Paesi o al mondo nella sua totalità.

L'argomento portante del libro di Deaton è che negli ultimi decenni diversi miliardi di persone nel mondo in via di sviluppo, in Asia in particolare, sono uscite da condizioni di povertà estrema. La stessa macchina che ha fatto aumentare la disuguaglianza nei Paesi ricchi ha portato uguaglianza a miliardi di persone in tutto il mondo. A posteriori e attribuendo a un indiano lo stesso peso di un americano o di un francese, sul fronte della povertà gli ultimi trent'anni sono stati i più importanti nella Storia di tutta l'Umanità.

L'arguto libro di Piketty documenta la disuguaglianza all'interno dei Paesi concentrandosi soprattutto sul mondo ricco. L'humus culturale a cui attinge viene perlopiù da quella che si considera la classe media all'interno del proprio Paese, ma che in realtà è una classe medio-alta per non dire ricca secondo i parametri globali. Quanto documentato da Piketty nel corso degli ultimi quindici anni insieme al coautore Emmanuel Saez, ha sollevato svariati dibattiti tecnici e astrusi. Io, invece, trovo convincenti i loro risultati soprattutto considerando che altri autori, pur seguendo metodi completamente diversi, sono giunti a conclusioni simili.

Brent Neiman e Loukas Karabarbounis della University of Chicago per esempio, sostengono che la percentuale di forza lavoro del Pil sia andata calando in tutto il mondo dagli anni 70 in avanti. Eppure Piketty e Saez non offrono un vero e proprio modello né lo offre questo nuovo libro. E la mancanza di un modello combinata a un campo d'analisi ristretto alla classe medio-alta dei Paesi, conta e parecchio quando si tratta di dare ricette politiche. I proseliti di Piketty sarebbero altrettanto entusiasti della sua proposta di un'imposta patrimoniale globale progressiva se questa fosse mirata a correggere le enormi disparità fra i Paesi più ricchi e quelli più poveri anziché fra chi sta bene stando ai parametri globali e chi è straricco? Secondo Piketty il capitalismo è iniquo. Ma non lo era anche il colonialismo? In entrambi i casi, l'idea di una patrimoniale globale è un vero ginepraio quanto ad applicazione e credibilità, oltre a essere politicamente impossibile.

Pur avendo ragione nell'affermare che negli ultimi decenni sono aumentati i rendimenti da capitale, Piketty sorvola sul dibattito che sta dilagando fra gli economisti a proposito delle possibili cause. Per esempio, se il fattore determinante è il forte afflusso di manodopera asiatica sui mercati globalizzati, il modello di crescita proposto dall'economista e premio Nobel Robert Solow prevede che l'accumulo di capitale finirà per regolarsi e i salari per aumentare. Il pensionamento di una forza lavoro che sta invecchiando finirà per far aumentare anche gli stipendi. Se, d'altro canto, la quota di reddito della forza lavoro è in calo per l'inesorabile aumento dell'automazione, le pressioni verso il basso perdureranno come ho già detto qualche anno fa a proposito dell'intelligenza artificiale.

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