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Questo articolo è stato pubblicato il 18 maggio 2014 alle ore 14:11.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:38.

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Esattamente 10 anni fa l'allora cancelliere Gerhard Schröder denunciò pubblicamente l'intollerabile nazionalismo economico francese. Il veto di Parigi costrinse comunque la tedesca Siemens a recedere dalla conquista di Alstom. Quello stesso anno, il 2004, anche Novartis che puntava ad Aventis dovette ritirarsi in buon ordine. L'anno dopo fu il turno di PepsiCo che voleva Danone.

Non sempre però le levate di scudi hanno impedito il passaggio di alcuni campioni sotto le altrui bandiere. Nel 2003 Pechiney, il colosso dell'alluminio, fu acquistata dalla canadese Alcan. Tre anni dopo Arcelor, il simbolo dell'acciaio francese, passò sotto il controllo dell'indiana Mittal. SFR, il secondo operatore di telefonia mobile, ora controllato dalla lussemburghese Altice, si ritrova con la sede nel Granducato. Lafarge, il numero uno del cemento francese, diventerà svizzera dopo il matrimonio con Holcim.

Se si guarda però all'evoluzione del suo "patrimonio" societario negli ultimi 20 anni, nonostante i timori ricorrenti la Francia, come dimostra un recente studio di Nicolas Veron dell'istituto Bruegel, resta meglio posizionata dei partner Ue nella graduatoria Ft 500 delle maggiori società quotate, sia per numero di presenze che per capitalizzazione di mercato: meglio della media dell'eurozona, molto meglio della Germania, per non parlare dell'Italia eternamente in fondo alla classifica. Non solo. Delle 18 società francesi che nel 1996 comparivano nel Ft500, 4 sono state oggetto di fusioni "nazionali", nessuna è stata comprata da stranieri. Degli altri 108 gruppi europei sull'elenco, ben 21, cioè quasi 1 su 5, sono invece stati bersaglio di acquisizioni transnazionali.

Anche se i numeri sembrano dimostrare che l'oltranzismo protezionista francese è eccessivo e ingiustificato, resta la domanda su quale sia la scelta ottimale da fare in caso di scalate più o meno amichevoli a gruppi ritenuti di importanza strategica per i settori che coprono e/o le leadership tecnologiche che detengono. Questo soprattutto quando, sotto il pungolo delle economie emergenti e sulla scia della reindustrializzazione degli Stati Uniti che, riscoprendo il manifatturiero, hanno ritrovato crescita e occupazione, in Europa si comincia a discutere di "rinascimento industriale" e di una politica comune in grado di favorirlo, di integrazione, maggiore diversificazione e autonomia energetica.
Ammesso che il concetto di campione nazionale sia obsoleto quanto quello di Stato nazionale, e sempre che questi giudizi trancianti non rischino di rivelarsi troppo precipitosi, ha ancora un senso oggi puntare sui campioni europei come Airbus, Eads, Eurofighter per farne anche la tessera di una futura identità dell'Europa che vada oltre l'euro per ricreare industria, sviluppo e lavoro?

E quando si negozia il Ttip, il nuovo patto transatlantico su commercio e investimenti, cioè una credibile risposta euro-americana alle sfide della globalizzazione, è congrua la logica della Francia di Hollande che respinge l'intesa di Alstom con Ge forse ripescando un suo possibile matrimonio con la tedesca Siemens per creare oggi il nuovo campione europeo bocciato ieri? E quando di mezzo ci sono eccellenze tecnologiche, brevetti e ricercatori, cioè le vere materie prime dello sviluppo nel 21°secolo, davvero si possono affidare le scelte dei partner industriali alla pura legge del mercato?

Per vincere la partita della competitività e della crescita nell'era globale, l'Europa deve trovare e presto risposte comuni per sfruttare al meglio la sua grande massa critica. L'Italia non può stare alla finestra senza darsi una politica coerente con i suoi interessi. Altrimenti potrebbe ritrovarsi un giorno costretta a risposte precipitose. Magari autolesioniste.

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