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Questo articolo è stato pubblicato il 21 maggio 2014 alle ore 08:10.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:40.

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«Prima gli hanno detto che non sarebbe stato in grado di costruire il razzo, poi che il razzo non si sarebbe mai staccato dalla rampa di lancio e ora all'Europarlamento che, sempre deciso ad andare su Marte, è riuscito a smentirli si preparano a negare il diritto di atterraggio».

È caustica la metafora con cui il tedesco Klaus Welle, il segretario generale dell'assemblea e di fatto il suo potente deus ex machina, descrive lo scontro in atto che potrebbe sfociare in una violenta guerra inter-istituzionale europea tra Parlamento e Consiglio Ue: ufficialmente per la nobile causa della democrazia, in realtà per creare nuovi rapporti di forza tra le istituzioni Ue.
«Angela Merkel non si immischi nei nostri affari interni: è il cancelliere della Germania, non dell'Europa né del Parlamento europeo, dunque si limiti a fare il suo lavoro» avverte Hannes Swoboda, il capogruppo uscente degli euro-socialisti. La Merkel aveva avuto il torto di affermare che alla riunione dei capigruppo, che il 27 maggio dovrà valutare i risultati delle europee, a presiedere dovrà essere il popolare Joseph Daul e non Martin Schulz, in quanto il presidente del Parlamento è anche il candidato socialista in gara per la presidenza della Commissione Ue.

Scampoli al vetriolo di una campagna elettorale nuova, la prima che prova a farsi sul serio europea, a giocare la partita della democrazia transnazionale nel tentativo di creare un popolo e una cultura politica davvero europei, di porre le basi di un'Unione diversa, integrata a tutti i livelli e non più schiacciata sulla dimensione economico-tecnocratica.
L'intenzione è ottima, la battaglia esemplare ma rischia un effetto boomerang: 24 lingue diverse, per non parlare di storia, tradizioni, sistemi democratici diversi, sono barriere difficili da superare per sfondare il muro dell'incomunicabilità e del l'indifferenza, dei nazionalismi e degli astensionismi in un'Unione in crisi di fiducia e di consenso, lontana dalla sua gente provata da scarsa crescita e lavoro.

Ci hanno provato i sei candidati in corsa per la guida della Commissione Ue, il popolare lussemburghese Jean-Claude Juncker, il socialista tedesco Schulz, il liberale belga Guy Verhofstadt, i verdi José Bové e Ska Keller, il comunista greco Alexis Tsipras, a superare le barriere dei suoni nazionali, a parlare europeo nei confronti e dibattiti televisivi.
Ma l'impressione è che la nuova euro-democrazia resti per ora reclusa in un interessante esperimento di laboratorio che convince intellettuali, europeisti e addetti ai lavori ma scivola sulla pelle degli elettori, disinteressati e disinformati, astensionisti, sostanzialmente chiusi in 28 recinti nazionali dove dominano problemi, scontri e retoriche nazionali: oggi esattamente come ieri. La variabile europea del dibattito resta marginale, anche perché la scelta del presidente della Commissione Ue non appassiona nessuno.

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